14 gennaio 2019 - 12:11

Gazebi e Lega, un’epoca finita

L’evoluzione del partito di Salvini: oggi il dibattito interno al partito non c’è più ma vige il rapporto diretto «un capo-un popolo»

di Massimo Tedeschi

Gazebi e Lega, un’epoca finita
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C’era una volta la Lega Nord dei gazebi e del campionato di Calcio padano, dei raduni di Pontida e dei manifesti che hanno fatto epoca: «Paga somaro lombardo», oppure «Sveglia padano! La Lega Nord contro Roma Ladrona» che effigiava una panciuta gallina del Nord che riforniva di uova una donna in costume calabrese, o ancora il dadaista ritratto di un capo sioux con la scritta: «Loro non hanno potuto mettere regole all’immigrazione. Ora vivono nelle riserve». Tutto questo non c’è più. La Lega Nord (con l’aggiunta di qualche nome nel simbolo, Bossi o Salvini che fosse) è nata nel 1989 ed è il partito più longevo oggi sulla scena: l’unico che i trentenni d’oggi trovano ancora sulla breccia da quando sono nati. Mentre la galassia del centrosinistra frullava i suoi simboli (Pds, Ppi, L’Ulivo, l’Asinello, La Margherita, Ds, Pd, Leu e chissà cos’altro ancora), mentre Forza Italia (nata però nel 1994) compiva il viaggio di andata e ritorno dal Pdl, mentre An spariva e Rifondazione comunista si liofilizzava, la Lega è rimasta sulla scena identica a se stessa — almeno nel nome — fino alla mutazione dell’era salviniana. Adesso che canottiere, gadget, vacanze a Ponte di Legno e Soli delle Alpi appartengono all’armamentario polveroso e un po’ patetico del passato, bisognerà ammettere che gli avversari e persino i «neutrali» a suo tempo hanno guardato con sorpresa e un pizzico di invidia al fenomeno leghista. A suscitare invidia o ammirazione erano quei militanti coriacei che stazionavano — al gelo o con il solleone — sotto il gazebo per la raccolta di firme di turno o per la campagna di stagione, che aprivano sezioni di partito e animavano congressi dove volava più d’una sedia e cadeva più d’un congiuntivo ma dove pulsava autentica passione politica. A suscitare invidia o un pizzico d’ammirazione era poi quel popolo che si ritrovava alle feste di piazza ed eruttava i propri malumori ai microfoni aperti di Radio Padania concludendo le telefonate con uno slogan oggi archeologico: «Padania libera!». Anche gli osservatori più disincantati e meno amichevoli hanno dovuto ammettere, con il tempo, che qualche merito quelle battaglie leghiste l’hanno avuto: ad esempio sollevare la questione settentrionale di un Nord che correva a velocità incomparabile e incompatibile con le ruggini e le ruberie di «Roma ladrona», sollevare il tema del come l’Unità d’Italia s’è andata costruendo e in parte disfacendo, avvertire che l’immigrazione stava scardinando equilibri in vasti pezzi del Paese, far conflagrare il tema della sicurezza ormai diventato vitale per i ceti soprattutto popolari. Tutto questo però appartiene al passato. Oggi che il dibattito interno al partito non c’è più ma vige il rapporto diretto «un capo-un popolo» che ha precedenti sinistri, oggi che le camicie verdi sono state sostituite dalle felpe di tutti i corpi dello Stato (via via indossate dal leader e vicepremier), oggi che il rumoroso confronto sulla carta stampata e in radio ha lasciato il posto all’apodittica retorica del tweet, oggi che la simpatia per il modello federale svizzero e l’oggettiva prossimità alla Csu bavarese sono state sostituite dall’asse post-fascista che va da Parigi a Budapest (con propensioni filo-slave pencolanti fra Mosca e Varsavia), oggi che la battaglia politica per rappresentare gli artigiani, i padroncini e le partite Iva dell’immensa plaga padana è finita in secondo piano e la prima vittoria che la Lega vuole intestarsi è quella a difesa di chi vuole smettere di lavorare, oggi che la voce grossa sugli immigrati ha lasciato il posto a uno sguardo feroce verso esseri umani alla deriva nel Mediterraneo: ebbene, oggi è inevitabile chiedersi se la pingue gallina padana delle origini non covasse, ignara, qualche uovo di serpente.

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