Liberazione, il giorno che Napoli fu abbandonata al proprio destino

diFlavio Pagano

Lo storico Fiume:: «Quando gli Alleati entrano in città, la trovano già in ginocchio a causa dei bombardamenti, con l’aggravante che l’arretratezza economica e sociale rendeva il suo tessuto civile particolarmente fragile»

Pende, sulla parola Liberazione, un monumentale portato culturale del dopoguerra repubblicano, ma al tempo stesso vi si allunga un’ombra vaga, e tuttavia greve, che nel costruire l’immagine radiosa, ottimistica, albeggiante, del 25 aprile, a giocare il ruolo decisivo sia stata la necessità politica. Al grido di «kill Italians» gli Alleati sbarcarono in Sicilia e risalirono la Penisola. Con loro, le truppe coloniali francesi, i famigerati goumiers , che dimostrarono un valore eccezionale in battaglia e una ferocia inaudita nei confronti dei civili. In tutto questo, miserabile e lasciva retrovia del fronte, Napoli conobbe un degrado spaventoso. L’oro di Napoli stava per essere saccheggiato dai barbari di Gomorra. Sfinita dalla fame e dalle violenze, la popolazione cadde nel postraumatico disprezzo di sé che segue lo stupro, sviluppando una corrosiva filosofia della sopravvivenza dalla quale, in fondo, non si è mai più risollevata del tutto. Ne parliamo con lo studioso napoletano Fabrizio Fiume, docente di Storia Contemporanea all’Università di Bari.

L’accento subitaneo e marcato sul concetto di Liberazione, fa pensare anche a una contemporanea rimozione collettiva di quello di occupazione. Che cosa ne pensa?
«La guerra è un mostro che si nutre delle vite di chi vi soccombe, ma anche delle coscienze dei sopravvissuti e dalla loro capacità di sognare. È il trauma della Grande guerra che ci avvia verso i totalitarismi: sogni e incubi possono condizionare la Storia non meno della realtà. Dunque potrebbe non esserci contraddizione nel combinare il termine positivo liberazione al negativo occupazione. Ma uso il condizionale, perché precise e condivise scelte politiche hanno reso il binomio Occupazione/Liberazione un formidabile camouflage sotto cui far passare quello Sconfitta/Vittoria.»

Un concetto che, peraltro, sembra estraneo alla storiografia straniera. Può, proprio la parabola napoletana, aiutarci a interpretarlo meglio?
«Come spesso capita Napoli è un caso a sé, e un efficace modello per rappresentare vizi e virtù nazionali. La storiografia nazionale ha parlato di morte della Patria per raccontare la tragedia armistiziale: Napoli ci racconta questa morte in modo crudele ed efficace. Quando gli Alleati entrano in città, la trovano già in ginocchio a causa dei bombardamenti, con l’aggravante che l’arretratezza economica e sociale rendeva il suo tessuto civile particolarmente fragile. A Napoli Corona e governo sono costretti ad un bagno nella realtà: è qui che finisce il velleitarismo delle trattative rispetto all’armistizio, e la città, semplicemente, fu abbandonata al proprio destino».

La camorra, paradossalmente, rappresentò un riferimento per la gente. Nella diaristica militare, soprattutto inglese, sono citati episodi impressionanti, come quello dei bambini vittime di stupro indotti a vendicarsi, castrando l’aggressore. Quanto pesa, oggi, questo rapporto oscuro?
«Più che stabilire se realmente la camorra fu un riferimento per la popolazione, quello che conta è la percezione che di questo ebbero i napoletani. Come detto, fattori immaginari possono avere importanti ricadute nella realtà. È indubbio che il completo collasso dell’organizzazione statale e l’annichilimento dell’idea di Patria, possano aver favorito il cliché del camorrista buono, anche perché, al suo tradizionale ruolo di giustiziere, si sommava quello di garante della sussistenza, grazie alla gestione di attività economiche illecite, ma in quel momento indispensabili per la sopravvivenza. L’uso della forza e il welfare ante litteram del contrabbando hanno costruito le fondamenta dell’antistato: tanto più se si pensa che il dopoguerra napoletano finisce tardissimo, con le jeep delle shore patrols che stazionavano alla Posta Centrale o il periodico sbarco dei marinai di una portaerei.»

Marinai che, forse, non approcciavano la città, negli anni ‘70, con uno spirito così diverso da quello di un trentennio prima. La storia ha i suoi tempi: ma la storiografia, spesso, ha fretta.

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25 aprile 2018 2018 ( modifica il 25 aprile 2018 2018 | 07:02)