6 aprile 2019 - 09:14

«Mi sono attenuto ai fatti e per questo li ho assolti. Ma su Curcio ho sbagliato»

Le sentenze e le fughe in Francia. Il giudice Palombarini: «Ecco come la penso»

di Roberta Polese

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Il giudice Giovanni Palombarini
Il giudice Giovanni Palombarini

PadovaLe confessioni del brigatista Cesare Battisti, le reazioni delle famiglie, della politica, degli investigatori. L’arresto del terrorista in Bolivia ha posto nuovi interrogativi sulla «Dottrina Mitterand» che ha consentito a molti terroristi (e non) di sottrarsi alla giustizia, cosa che ha fatto lo stesso Battisti. Ne sa qualcosa Giovanni Palombarini, magistrato padovano d’adozione (nativo di Gorizia), ex componente del Csm, ex giudice della Corte di Cassazione, ma soprattutto Giudice istruttore a Padova negli «anni di Piombo». Fu lui a decomporre il «Teorema Calogero», azzerando, come fece poi la corte d’Assise d’Appello di Venezia e il processo parallelo a Roma, ogni forma di parallelismo tra i movimenti operai-studenteschi padovani e i brigatisti. Molti degli imputati a Padova furono per anni latitanti a Parigi. E a 40 anni da quel 7 aprile del 1979, giorno che accese i riflettori sulla città e sulla «retata» di esponenti di Autonomia legati alla figura del professor Antonio Negri, Palombarini accenna a un sorriso dal quale riemergono ricordi e riflessioni.

Giudice, ha senso ricordare il sette aprile? «No, è archeologia giudiziaria, è tutto morto e sepolto».

Crede alle confessioni di Battisti? «Gli credo, parlai all’epoca con Armando Spataro, mio omologo a Milano, e c’erano le prove. Battisti non mente».

Il suo arresto ha acceso ancora il dibattito sulla Dottrina Mitterand e sulla fuga in Francia di tanti imputati negli anni di Piombo, tra questi anche esponenti veneti di Autonomia, tra cui l’ex professore di Scienze politiche a Padova, Toni Negri… «La Dottrina Mitterand è lo straordinario frutto di un altissimo modello di libertà cui si ispira la Francia, l’asilo politico per quelli che all’epoca venivano considerati dei perseguitati politici è stato sempre un baluardo per quel paese. Mitterand diceva: “Venite qui, noi vi accogliamo, ma fate in modo di non fare nulla di male, noi vi controlliamo, se vi comportate bene potete restare”. All’epoca c’era questa possibilità di fuggire, di fronte al carcere è plausibile che molti tentassero la fuga, ed è quello che hanno fatto».

Quindi lei pensa che gli imputati degli anni di piombo abbiano fatto bene a scappare? «No, io sono dell’idea che bisogna stare nel processo, difendersi. Ma umanamente non posso non comprendere chi se ne è andato, le faccio un esempio per capirci. Luciano Ferrari Bravo (ora morto, ex assistente di Toni Negri accusato di eversione insieme a tanti altri docenti, studenti, operai e cittadini ndr), era stato arrestato il 7 aprile, io lo scarcerai. Rimase a Padova e fu arrestato un’altra volta molti mesi dopo, con le stesse accuse. Non era scappato, era rimasto, e in carcere mi disse “io sono rimasto qui, ora vediamola questa giustizia”. Si fece cinque anni di carcere, poi venne assolto».

Gli avrebbe consigliato la fuga? «Io sono un giudice, non posso consigliare la fuga, ma molti altri sono scappati ed è umanamente comprensibile quella scelta. Ricordo che in quegli anni ricevetti una telefonata, di notte. Era una persona indagata, di cui non rivelo il nome, che si trovava ad un convegno a Lecce, mi chiamò e mi disse: “Ho saputo che verrà spiccato un mandato di cattura, cosa devo fare?” Gli dissi di rimanere».

Si è mai pentito di qualche sua sentenza? «Pentito no, ma ho fatto degli errori. Ho assolto Renato Curcio dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, due fascisti uccisi da un gruppo di fuoco il 17 giugno del 1974, poi lo hanno condannato in Appello, ma io ritenevo non vi fossero elementi. Ne ho parlato in una occasione anche con Silvia, figlia di Graziano».

Il processo “sette aprile” arrivò in corte d’Assise d’Appello a Venezia con 112 imputati, vennero messi insieme quattro diversi procedimenti, ci furono condanne per fatti specifici, ma non venne mai dimostrato il collegamento con le Br, nemmeno nel filone romano in cui compariva il professor Negri, cosa che lei aveva compreso per primo, come aveva fatto? «Bastava leggere le carte, Calogero le aveva lette volendoci trovare il collegamento, io mi sono attenuto ai fatti. Ma c’era un conversazione che più di tutto fu illuminante, quella fra Negri ed un brigatista emiliano. Negri, che aveva fondato Autonomia, disse peste e corna del Pci, ce l’aveva a morte col partito, il brigatista al contrario sosteneva che prima o poi il Pci si sarebbe reso conto che loro avevano fatto il giusto e li avrebbero accolti. Due posizioni opposte, tanto bastava per azzerare ogni ipotesi di vicinanza».

Nei libri e negli articoli di giornale dell’epoca si parla di una forte conflittualità tra lei e Calogero, era davvero così? «No, Calogero è un uomo dotato di rara intelligenza. Convinto delle proprie idee, le portò avanti. Recentemente sono stato male, quando ero ricoverato in ospedale venne a trovarmi, fu di grande sostegno per me. Quel teorema non fu solo suo, era quello del Pci, era quello di molti intellettuali, docenti universitari, giornalisti. Ciò che mi rammarica è che in città, nonostante le sentenze, questa convinzione è rimasta, è rimasta l’idea che Autonomia operaia fosse un tutt’uno con i brigatisti».

E’ in contatto con qualcuno di quegli anni? «Ho saputo della morte di Antonio Garzotto, giornalista del Gazzettino (nel ’77 Garzotto venne gambizzato sotto casa da un gruppo armato mai identificato ndr), un professionista capace, preciso, mai una riga, mai una parola in più. Per quanto riguarda gli ex imputati, non sono in rapporti con loro. Molti, quelli meno famosi, hanno avuto la vita devastata, fanno vite riservate ed è giusto così, vanno lasciati in pace».

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