6 aprile 2019 - 09:16

Padova, a quarant’anni dalla grande retata: la lezione del 7 Aprile

I processi furono argine al terrorismo rosso o gabbia per i rivoluzionari? Reduci e studiosi divisi ma non sulla condanna delle violenze

di Paolo Coltro

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«Tutto cominciò sabato 7 aprile 1979. Alle 10 un aereo atterrò al “Marco Polo” di Tessera. Ne discesero una cinquantina di ufficiali della Digos agli ordini di un vicequestore di Roma. Gli uomini dell’ex squadra politica salirono su due pullman, destinazione Padova. Neppure un’ora dopo la città era assediata da mezzi blindati, impossibile uscirne senza incappare in un posto di blocco. L’operazione fu mastodontica: 22 ordini di cattura, 70 ordini di comparizione e un centinaio di perquisizioni domiciliari. Il blitz del sostituto procuratore Pietro Calogero cominciò così». Le righe scritte dal giornalista Dimitri Buffa cinque anni dopo, a processi in corso, fissano in un fotogramma quello che a Padova è diventato il 7 aprile per antonomasia. Quel giorno e quel mese non sono solo una data, sono una pagina di storia tutta da leggere e interpretare, ancora oggi a quarant’anni di distanza.

La nascita del termine «blitz»

Per la prima volta il termine blitz, (da blitzkrieg, la guerra lampo dei tedeschi) si applica ad un’operazione giudiziaria. Non ci sono solo i cinquanta arrivati da Roma: centinaia di agenti setacciano Padova, entrando in azione fin dall’alba. Dei ventidue catturandi qualcuno sfugge alla maglie, Franco Piperno e Oreste Scalzone diventeranno latitanti. Finisce in manette il gruppo dei docenti che a Scienze Politiche attorniano Toni Negri: Luciano Ferrari Bravo, Alisa Del Re, Guido Bianchini, ma anche docenti di altre facoltà. Catturato anche il giornalista Pino Nicotri, così come Emilio Vesce. E lui, Toni Negri, considerato il cervello non solo della rivoluzione teorica, ma del terrorismo vero e sanguinario, è arrestato nel suo appartamento di Milano mentre scrive un articolo per «Magazzino», pubblicazione semiufficiale di Autonomia Operaia.

Rivoluzione ideologica

E’ uno tsunami nell’università e nella città ed è uno tsunami ideologico: perché l’impianto accusatorio di Calogero viene da subito definito «teorema». In sintesi: Potere Operaio non si è veramente sciolto nel 1973, si è trasformato nei Collettivi politici veneti e poi in Autonomia Operaia. Toni Negri ne è l’ideologo ma lo è anche delle Brigate Rosse. Ne derivano, per un nucleo di 12 inquisiti, accuse pesantissime, da ergastolo: insurrezione armata contro i poteri dello Stato, banda armata. Per gli altri, il mondo variegato degli autonomi padovani, ci sono la banda armata e l’associazione sovversiva, oltre ai fatti specifici. La diversità delle imputazioni provoca la divisione in due tronconi: a Roma i sospettati di collusione con le Br, a Padova gli altri. A Roma Pino Nicotri viene scarcerato dopo tre mesi. A Padova lo tsunami diventa anche giudiziario, scoppia il conflitto tra Calogero e il giudice istruttore Giovanni Palombarini. Sono due visioni diverse: il «teorema» da una parte, il garantismo dall’altra. Tre arrestati padovani vengono scarcerati, Palombarini non firma la richiesta di altri 14 arresti, viene attaccato da Calogero e dai giornali, l’Unità in testa. Scriverà Luca Barbieri, autore di una tesi sul 7 aprile: ecco «il meccanismo infernale messosi in moto in quegli anni. Calogero arrestava, Palombarini liberava perché riteneva non sufficienti le prove, il procuratore ricorreva, la sezione istruttoria della Corte d’Appello riarrestava, il giudice istruttore proscioglieva; Calogero ricorreva».

Quarant’anni dopo

Quarant’anni dopo, per le giovani generazioni, serve ricordare come andarono a finire i processi. Troncone romano: gran parte delle accuse caddero dopo le dichiarazioni del pentito br Patrizio Peci. Nell’84 la sentenza accoglie l’impianto accusatorio salvo che per l’insurrezione armata, Negri è condannato a 30 anni; l’appello dell’87 riduce le pene, 12 anni a Negri. Troncone padovano: nell’86, sette anni dopo il 7 aprile, tutti assolti per i reati associativi, decine di condanne per i fatti specifici. I processi non dimostrarono alcun collegamento tra gli autonomi e le Brigate Rosse e il caso Moro. Sette dei maggiori imputati vennero assolti e cinque condannati. Tra i padovani nessuno venne condannato per le imputazioni principali, ma 150 autonomi ebbero condanne per gli atti di violenza.

La città si divide sulla storia

E allora, cos’è stato il 7 aprile? «La più grande montatura mediatico-giudiziaria dell’Italia repubblicana», come dicono ancor oggi i reduci dell’estrema sinistra? O un freno deciso alla possibilità di una «guerra civile», come paventava lo stesso Calogero? Di sicuro alla fine degli anni ‘70 il clima era diverso. Era arroventato, e a Padova più che altrove. Le spranghe autonome avevano colpito i prof Guido Petter, Oddone Longo, Ezio Riondato, Angelo Ventura. Le pallottole avevano azzoppato il giornalista Antonio Garzotto e Giampaolo Mercanzin. Dei 1197 episodi di violenza eversiva registrati nel Veneto tra il ‘77 e il ‘79, ben 708 erano successi a Padova, tra attentati, aggressioni rapine ed espropri. Si respirava spesso fumo, e ancora più spesso paura. L’inchiesta di Calogero, che aveva avuto un prologo di più basso profilo nel ‘77, diventa risposta giudiziaria ma in un contesto politico-istituzionale più alto. Il Partito Comunista la appoggia, non tollera la sinistra più violenta. La città, commercianti in testa, è sull’orlo della disperazione. Ma dopo il 7 aprile il clima, quello fisico, non migliorerà. Sbarcano in città torme di giornalisti, subito c’è lo spartiacque tra «pistaroli», i sostenitori di Calogero, e i garantisti, in minoranza. Alcuni giornalisti vengono minacciati dagli autonomi, altri sono nel mirino di tutti: magistrati, poliziotti e autonomi, tutti insieme fanno loro sentire il fiato sul collo. I cittadini temono la reazione autonoma, che c’è con le «notti dei fuochi». Padova continua a non essere respirabile, diventa in quei mesi la capitale della caccia al terrorismo. La storia giudiziaria, poi, tiene accesa a lungo la miccia, anche se a mano a mano si stempera. Un appello garantista «ai giudici del caso Negri» appare il 15 settembre 1979 su «Repubblica» e lo firmano tra gli altri Umberto Eco, Massimo Cacciari, il regista Bertolucci, il filosofo Vattimo, Giorgio Bocca. A novembre Negri, da detenuto, si fa male da solo in una lettera al «Corriere» in cui scrive che «la violenza non è un diritto, è un dovere».

«Il confronto? Si è trasferito sui libri»

L’ex studente Luca Barbieri, laureato e cresciuto, oggi imprenditore nel campo della comunicazione, scrive dieci anni fa: «Padova è ancora una città di reduci sulle loro posizioni». Il 7 aprile e quella fase storica sono diventati materia da studiosi, ma sempre di qua e di là. Il confronto si è trasferito sui libri, pensati e documentati. Da una parte la lettura istituzionale, che in gran parte vuol dire difesa del ruolo del Pci di allora: ed ecco «Difendere la democrazia» di Alessandro Naccarato, ex deputato PD con radici Pci, sul ruolo del partito contro la lotta armata; e poi «Il terrorismo di destra e di sinistra», a cura dello storico padovano Carlo Fumian, che ha curato anche un libro sugli editoriali di Angelo Ventura; e ancora «Terrore rosso» con Calogero e Michele Sartori. Dall’altra parte la marea di siti e blog della sinistra antagonista, da Controinformazione, a Lutherblissett, micciacorta, osservatorio repressione, globalproject eccetera. Ma soprattutto due volumi: «Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore Giovanni Palombarini», edito nel 2016 dalla padovana Il Poligrafo, uno «strumento disintossicato»; il manifestolibri ha pubblicato nel 2009 «Sette aprile. Voci di una città degna». Alla presentazione, dieci anni fa, la sala Anziani non conteneva i 500 e passa partecipanti, che sedettero sulla scalinata esterna.

Balck bloc e gilet gialli

Oggi qualcuno non c’è più, gli altri protagonisti sono quasi tutti pensionati. Il clima politico è veramente diverso? Black bloc, gilet gialli, frange anarchiche hanno preso la scena, finora nessuno li ha incriminati per insurrezione armata. Resta una ferita curata diversamente, restano «gli altri», ma qualcuno discute, adesso dopo 40 anni, senza spranghe. E per strada, con i capelli bianchi o senza capelli, magari si salutano. Due domande finali: esistono ancora gli «irriducibili»? E la storia ha fatto giustizia?

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