13 giugno 2018 - 08:27

Sonia, la trevigiana nell’Isis. «Hanno ucciso mio marito. Voglio tornare a casa»

La ventenne fuggita da Fonte ora si trova in un campo profughi siriano. «Indosso il burqa e ho due figli, vorrei solo che tutto questo finisse»

di Ivan Grozny Compasso

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«Se potessi tornare indietro non lo so che scelta farei. Oggi ho due figli, devo pensare a loro, al loro futuro. Vorrei tornare a casa mia ma non lo so se sarà mai possibile». Lo dice con un tono che non è proprio convincente, Sonia, ma lo ribadisce più volte. Oggi ha 21 anni e due figli. La sua storia è stata oggetto di inchieste e ha fatto molto scalpore quando si venne a conoscenza della sua adesione a Isis. Il suo accento tradisce, ancora oggi, le origini venete. I genitori sono infatti originari della Tunisia ma Sonia è cresciuta a Fonte, piccolo paese della Marca trevigiana dove i suoi si sono trasferiti circa trent’anni fa. Insieme a lei ci sono anche altre donne che hanno sposato guerriglieri Daesh, tutti provenienti dall’Europa. Sonia è l’unica che indossa il burqa, però.

Il campo profughib e la desolazione di Raqqa

Si trova a Ein Hissa, un campo profughi che dista meno di un centinaio di chilometri da Raqqa. Il campo ospita duecentomila sfollati, poco distante c’è un settore dove ci sono altre donne, circa un centinaio, che hanno sposato guerriglieri dell’Isis che sono poi stati uccisi o catturati. Raqqa era, insieme a Manbij, una delle città roccaforte di Isis: gli uomini del Califfato l’hanno controllata fino a ottobre del 2017, oggi è quasi completamente rasa al suolo. Ci vivevano un milione e mezzo di persone, ne sono rimaste poco più di centoquarantamila. Sacche di resistenza dello Stato Islamico sono comunque ancora presenti in città, ci sono stati due attentati sanguinosi solo nell’ultima settimana. Lo scenario che ci si trova di fronte nel percorrere le poche strade sicure è apocalittico. Daesh prima di ritirarsi ha anche minato alcuni quartieri, rendendo inaccessibili intere fette di città e condannando a morte chi ha voluto anche solo avvicinarsi alla propria casa, o a quel che ne rimane. La maggior parte dei ponti sopra l’Eufrate sono stati abbattuti e l’unico modo per andare da una parte all’altra del fiume è utilizzare delle zattere.

La vita a Raqqa

È ancora molto rischioso percorrere le strade di Raqqa, le precauzioni non sono mai troppe e non sempre bastano. «All’inizio – racconta Sonia - a Raqqa non uscivo neppure di casa, mi occupavo solo delle faccende domestiche. Per me quindi sembrava tutto normale. Solo poi, quando ho cominciato a uscire, mi sono resa conto che uccidevano davvero tanta gente. Ma non ho mai assistito direttamente a delle esecuzioni. Una volta però, ero al mercato, al suk, lì ho visto un uomo appeso. Si usava così: lasciarli esposti per tre giorni, i morti, in modo che li potessero vedere tutti. È stata la prima volta. Comunque, se la domanda è se davvero accadeva quello che si vede nei video che Isis propagandava nel web, la risposta è sì: era tutto vero».

L’ingresso in Siria

Sonia non tradisce grandi emozioni mentre racconta e anzi dà l’impressione di misurare le parole. «Mi sono sposata in Turchia e poi siamo entrati in Siria. Era il 2015. Siamo entrati con un passeur (trafficante di uomini, ndr) che da Gaziantep ci ha condotti fino al confine con la Siria». Non è un caso che sia partita proprio da Gaziantep, città del sud della Turchia dove sono molti i sostenitori di Isis. La città è nota perché quando ci fu l’attacco al Bataclan, dove perse la vita anche la ricercatrice veneziana Valeria Solesin, in molti inscenarono caroselli per le strade sventolando le bandiere nere del Califfato. Gaziantep continua a essere base di appoggio sia per chi si vuole arruolare che per i combattenti che escono dalla Siria.

«Non era il mondo perfetto»

«Abbiamo attraversato a piedi il confine e, una volta superato, c’era una macchina che ci aspettava. Da Jarablus siamo arrivati a Raqqa, in auto. Ci siamo stati più di un anno. Mi sono subito resa conto che non era come mi aspettavo, un mondo perfetto e giusto dove si viveva secondo le regole del Corano. Quando però me ne sono resa conto era ormai troppo tardi. Avrei voluto tornare a casa, nella provincia di Treviso, ma non si poteva più. Rischiavo la vita anche solo a pensarlo». I suoi genitori sono ancora lì, a Fonte. «Ma non li ho più sentiti. Loro erano molto contrari, non volevano che partissi. Mio padre quando ha saputo che ero in Turchia e ha capito le mie intenzioni ha fatto di tutto per farmi cambiare idea ma non c’è riuscito». Da allora, ha interrotto ogni rapporto con la famiglia in Italia. «Ho provato a cercarli prima con dei messaggi e poi a chiamarli direttamente, non ho ottenuto risposte. Avevano probabilmente cambiato il numero di telefono. Non so più nulla di loro, e loro non sanno più nulla di me».

«Vorrei solo che tutto questo finisse»

Quando le chiediamo del suo viaggio da Treviso fino alla Siria si legge nei suoi occhi che il ricordo è vivido, fresco: «Siamo scappati dal Veneto di notte, di nascosto. Ero già incinta quando siamo partiti. Ho partorito in Turchia, solo dopo abbiamo attraversato il confine. Oggi che di figli ne ho due, vorrei solo che tutto questo finisse». Le chiediamo se ha conosciuto o incontrato altri italiani durante la sua permanenza nello Stato Islamico. «Tantissimi francesi, questo sì, ma italiani mai nessuno».

«Ho capito che dovevo indossare il burqa»

Lei è l’unica qui, tra le donne dei combattenti Daesh portate in questo campo, che indossa ancora il burqa: «Mia madre non lo ha mai indossato, invece io ho capito che dovevo farlo. Mi sono documentata sul web e ho deciso di vestirmi così, lo dice il Corano. Mio padre ripeteva sempre che non dovevo, che era una scelta sbagliata, ma io sentivo che questo è l’unico modo per seguire i precetti dell’Islam».

Il marito ucciso da un drone

Sul burqa non ha dubbi. Piuttosto, è la violenza che ha fatto vacillare le sue convinzioni, o almeno sostiene questo. «Daesh ama il sangue, uccidere la gente. Non si ferma di fronte a nulla. Però quando ero a Raqqa avevo sempre paura per mio marito, per i miei figli. Non tanto per i bombardamenti, ai quali ci siamo abituati presto. Avevo paura per lui. Lo hanno ucciso con un drone durante un attacco mirato proprio a Raqqa». Una cosa è vedere o leggere pezzi di propaganda sul web, un’altra cosa è vivere certe situazioni direttamente, questo sembra voler dire. «In tanti si sono resi conto di cosa significhi far parte di Daesh solo quando sono arrivati in Siria. Molti volevano uscirne ma non è affatto facile fare retromarcia, tornare indietro. Si può pagare, molto salato, ingenti somme di denaro, ma non è una garanzia neppure quella. Quindi molti trovavano pretesti per avere ruoli non attivi, in modo da non essere costretti a uccidere o compiere le violenze che conoscete anche voi in Occidente. Ancora oggi ci sono molti che vorrebbero dare un taglio a quel tipo di vita ma è difficile. Allo stesso tempo ci sono ancora moltissimi che sono sempre pronti a morire per Daesh. E a uccidere».

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