16 gennaio 2019 - 13:23

Padova. Immigrati come animali da circo e falsa carità. Il libro di don Luca Favarin che sferza la Chiesa

Il sacerdote che a Natale aveva invitato a non fare il presepio ora scoperchia in un volume le contraddizioni del mondo ecclesiale (con la prefazione di Gad Lerner)

di Francesca Visentin

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Don Luca Favarin (a sinistra) con i migranti della onlus di cui si occupa a Padova
Don Luca Favarin (a sinistra) con i migranti della onlus di cui si occupa a Padova

PADOVA A Natale aveva denunciato «L’ipocrisia del presepio», accendendo la miccia di una polemica non ancora sopita. «Gesù era un migrante che ha trovato rifugio in una stalla. E noi vogliamo respingere e lasciare per strada i profughi - aveva scandito - . Basta, non bisogna fare il presepio, è un atto ipocrita». Don Luca Favarin di Padova, con le sue parole sferza la Chiesa. E continua a farlo anche con il libro «Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo» (edizioni San Paolo), con la prefazione di Gad Lerner. Dopo molti viaggi in Africa e con l’esperienza della onlus Percorso Vita, che ha fondato a Padova e con cui segue i profughi, Don Luca Favarin che in molti paragonano a Papa Francesco per gli atteggiamenti rivoluzionari all’interno della Chiesa, scoperchia con il libro contraddizioni e «falsa carità».

Migranti come animali da circo... «Il tema è questo. E il titolo è volutamente provocatorio. Evoca ciò che vedo in giro, anche tra le realtà che si occupano di accoglienza e solidarietà. Denuncio che nel mondo ecclesiale ci sono più praticanti che credenti nel messaggio del Vangelo. L’immigrazione ne è la prova. L’atteggiamento si divide o nel desiderio di “cancellarli” rimandandoli a casa, o nell’assistenzialismo, nel trattarli come poveretti, disgraziati, “animali da circo” da mettere nelle parrocchie. Un vecchio e superato concetto di carità che combatto».

La sua è una presa di posizione critica anche nei confronti della Chiesa? «Sì. Critico i progetti di solidarietà e accoglienza che usano gli immigrati per fargli fare collanine di perline da vendere ai mercatini della parrocchia, o cose simili... E’ questa la nostra progettualità? Mi sembra poco. La comunità cristiana è reticente e connivente su questi temi, lo considero inaccettabile».

Il problema è la mancanza di una adeguata preparazione dei sacerdoti su temi (e emergenze) della contemporaneità? «C’è tanta educazione religiosa e poca preparazione alla vera pratica del Vangelo. Questa è una responsabilità storica, pesantissima della Chiesa: tanti riti, ma pochi atteggiamenti di fede autentica. Vado a parlarne ovunque mi chiamano. Quello di cui parlo è un tema divisivo, ma il confronto è importante, anche in territori non facili o tradizionalmente non portati verso l’accoglienza. Io però cerco sempre il confronto, anche quando è critico. Parlare è importante».

In materia di immigrazioni fanno più danni le leggi, la politica o la «falsa carità» che lei denuncia? Il nuovo decreto sulla sicurezza è criminale, infame, infamante, distrugge qualsiasi progettualità. Costringe le persone a dormire per strada, quindi l’Italia si è schierata per la non-accoglienza. Poi però, a casa, tutti bravi a esibire il presepio, accanto alla tavola imbandita, al caldo del termosifone acceso. Per questo dico che fare il presepio è un’ipocrisia. Così come è ipocrita dire: accolgo Dio, ma lo straniero non lo guardo, non lo voglio, puzza e disturba. L’accoglienza ai migranti che funziona passa attraverso l’inserimento lavorativo, ma serve la legge, servono i permessi di soggiorno. Vorrei accadesse come è successo per la legge Basaglia: da una buona legge si è arrivati poi a buone pratiche, concrete».

Un esempio virtuoso di accoglienza ai migranti che ha dato buoni risultati? Senza leggi è difficile portare avanti un’accoglienza che a lungo termine diventa vera integrazione. Qualcosa di virtuoso stiamo cercando di farlo a Padova, con la onlus Percorso Vita: seguiamo nove comunità di accoglienza, 140 giovani. E abbiamo realizzato due esperienze di inserimento lavorativo in due ristoranti di Padova, «Strada facendo» e «The best one». Lì i migranti lavorano, così diventano parte della comunità, tornano a vivere. I piatti dei ristoranti vengono preparati con la verdura coltivata in campi e orti, dove i ragazzi provenienti dall’Africa hanno imparato a cimentarsi con radicchio, cavoli e patate. E gli alberi da frutto vengono coltivati con cura e amore: da quella frutta nascono le marmellate biologiche

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