28 luglio 2018 - 08:45

Le due Leghe nella Lega: Zaia paladino del Veneto e la solitudine nel partito di Matteo Salvini

Dalle liste del 4 marzo fino al prossimo congresso, la distanza tra i vertici si allarga

di Marco Bonet

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E il terzo giorno, Zaia parlò. Incalzato da ogni parte, con gli amici di Forza Italia e i nemici del Pd a ironizzare: «Prima il Veneto o prima la Lega?», invocato dagli industriali come l’unica figura dialogante e ragionevole di un partito sempre meno «sindacato del Nord», il governatore ha infine detto che sì, «il decreto Dignità dev’essere cambiato» perché così non va e «se verrà approvato come è stato presentato rischia di avere un impatto pesante». Zaia, sempre abile a camminare sul filo che divide lotta e governo, politica e amministrazione, mette subito le mani avanti: «I materiali artefici di questa partita sono i Cinque Stelle» e per tutta l’intervista rilasciata al Gazzettino si prodiga per dimostrare che dalla Regione al parlamento la Lega sta facendo di tutto per rimediare all’errore di Di Maio. Ma è indubbio che nel prendere finalmente posizione, il governatore si è messo sul fronte opposto rispetto al suo leader, Matteo Salvini, al suo segretario, Toni Da Re, e all’intera catena di comando leghista che invece da giorni sta difendendo con le unghie la linea del governo, non lesinando ruvidezze. E dunque Salvini, che dice di conoscere bene gli imprenditori veneti (ma evidentemente non sono gli stessi che conosce Zaia), liquida le proteste di Confindustria con un laconico: «Sono in cinque…»? Zaia avverte: «È l’impresa del Veneto a 360 gradi, quindi non solo gli industriali, ad avere perplessità e istanze, penso che questo non sia irrilevante».

Il decreto Dignità

Da Re scudiscia gli imprenditori dicendo di non accettare lezioni da loro perché «pensano solo al dio denaro»? Zaia li soccorre: «Non trovo assolutamente irrituale che le imprese e i loro rappresentanti possano dire la loro su questa partita». È, questo del decreto Dignità, solo l’ultimo episodio che i colonnelli leghisti rubricano alla voce «Grande Freddo», quello calato tra Zaia e il suo partito in questi mesi. C’è un tema mediatico ed è presto detto: l’iperattivismo di Salvini a reti unificate ha completamente oscurato il resto della prima fila leghista, diventata finalmente «corale» dopo il declino di Bossi, e tra coloro che più ne hanno risentito c’è sicuramente Zaia, un tempo tra i dirigenti con la maggiore visibilità nazionale. Poi c’è un tema politico, che riguarda la svolta nazionalista, sovranista e perfino sudista impressa da Salvini alla Lega, difficilissima da gestire in un Veneto autonomista, internazionalista (almeno nel capannone) e ancora fortemente nordista, se non padanista e di più, indipendentista. Ma c’è pure l’aggravarsi del scontro con la Chiesa (con cui Zaia ha sempre avuto ottimi rapporti), l’accentuarsi di posizioni radicali in tema di omosessualità (come dimostrano le ultime dichiarazioni del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana) e immigrazione (Zaia è contrario ma sicuramente non può essere arruolato tra le fila di Primato Nazionale e Casapound, i cui toni, specie sui social, ormai dominano il dibattito a destra).

Gli «Zaia boys»

I colonnelli che gli sono più vicini (sono pochissimi perché come ripete lo stesso governatore «gli Zaia boys non esistono» e questa è da sempre indicata come una bizzarra anomalia) mettono in fila altri episodi recenti, meno teorici e assai più spicci. La scientifica esclusione dalle liste delle Politiche del 4 marzo di tutti gli uomini riferibili al governatore e al suo territorio, l’Alta Sinistra Piave. La successiva nomina a sottosegretari di due leghisti che nel partito vengono indicati da sempre come suoi antagonisti, e cioè Massimo Bitonci (andato all’Economia) e Franco Manzato (all’Agricoltura, il cuore dell’elettorato di Zaia). A Treviso il neo sindaco Mario Conte non è sicuramente riconducibile alla cerchia del governatore, a cui ciò non di meno è stato chiesto di spendersi a tal punto da presentare la sua lista personale, in una sorta di conta interna poi vinta dalla compagine della Lega (il cui regista era l’eterno Paolo Gobbo) col 19% contro l’11%.

L’autonomia del gruppo in consiglio

E ancora in Regione, dove per ben due volte e su due temi delicatissimi, il gruppo si è mosso in totale autonomia rispetto al suo presidente, che ben si sapeva avere idee diametralmente opposte: parliamo dell’eliminazione del doppio mandato per i consiglieri e del via libera alle fucilate ai lupi. Ora, ci si può trincerare sempre dietro il fatto che «il consiglio è sovrano»? Infine, due episodi sull’asse Venezia-Roma: la sibillina intervista al Corriere con l’avvertimento al governo «amico» sull’autonomia, che in Lega raccontano fosse indirizzato al viceministro (leghista) all’Economia Massimo Garavaglia, e la candidatura di Cortina alle Olimpiadi invernali del 2026, ostinatamente inseguita da Zaia che ha scompaginato il «Piano Milano» creando non pochi grattacapi al sottosegretario (leghista) con delega allo Sport Giancarlo Giorgetti. Una distanza, quella che si sta allargando tra il governatore, ormai identificato in maniera totalitaria con «il Veneto», e l’apparato del partito, sempre più legato al «Salvini nazionale», che potrebbe sfociare il prossimo anno nell’appoggio di Zaia alla candidatura del suo assessore allo Sviluppo economico Roberto Marcato al congresso per la segreteria nathional, contro l’uscente Da Re. Un’eventualità clamorosa al punto da rimettere tutto in discussione per le Regionali del 2020 e che se mai si avverasse certificherebbe in maniera ufficiale ciò che molti già sussurrano in via ufficiosa, ossia l’esistenza di due Leghe nella Lega.

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