12 marzo 2019 - 09:37

A Venezia 400 familiari delle vittime della mafia: «Contro chi fa il male e contro chi non si ribella»

Libera e Avviso Pubblico hanno radunato in Luguna le famiglie delle vittime di mafia in vista della Giornata della Memoria e dell’Impegno in loro ricordo che si svolgerà il 21 marzo a Padova

di Andrea Rossi Tonon

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Don Ciotti alla riunione veneziana dell’associazione dei familiari delle vittime di mafia
Don Ciotti alla riunione veneziana dell’associazione dei familiari delle vittime di mafia

VENEZIA «Estorsioni e usure sono solo l’inizio». L’obiettivo di Stefania Gallo non è quello di intimorire ma mettere in guardia di fronte a dinamiche che hanno segnato la sua vita. È la sera del 20 marzo 1989 quando due killer della ‘ndrangheta raggiungono la concessionaria di automobili gestita da suo padre a Locri e aprono il fuoco: Vincenzo Grasso è stato ucciso perché aveva osato dire di no alle richieste estorsive degli ‘ndranghetisti e li aveva denunciati. «Mio padre mi ha sempre detto che denunciare rende liberi mentre dire di sì, anche una sola volta, rende schiavi» racconta Stefania. «Avere paura è normale - continua - ma bisogna essere capaci di denunciare tutti insieme per impedirgli di radicarsi. La Calabria ha esportato questa criminalità, ma adesso può esportare anche la capacità di reagire».

Le storie

La storia di Vincenzo Grasso è una delle tante raccontate dagli oltre 400 familiari delle vittime innocenti di mafia che Libera e Avviso Pubblico hanno radunato a Venezia in vista della Giornata della Memoria e dell’Impegno in loro ricordo che si svolgerà il 21 marzo a Padova. «Non è un caso se quest’anno abbiamo scelto il Veneto» premette Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, integerrimo funzionario di Stato che il 31 marzo 1995 pagò con la vita la decisione di denunciare un giro di malaffare e corruzione nell’Ufficio Registri di Foggia. «Quando mio padre venne ucciso non si parlava di mafia. C’erano delle bande che si sparavano, ma nessuno aveva capito che lottavano per il controllo del territorio e che la mafia si stava radicando. Oggi non siamo qui per dirvi che tra poco tutto questo capiterà anche a voi ma per spingervi a conoscere e reagire». Dopo le inchieste e gli arresti, gli stimoli che giungono dai familiari delle vittime suonano come un campanello d’allarme. Ma trent’anni fa la mafia sembrava qualcosa di lontano. Invece la sera del 4 maggio 1992 colpì in Veneto, in via Tassoni a Padova. Fermi a bordo di una Mercedes bianca ci sono Matteo Toffanin, 23 anni, e la sua fidanzata Cristina Marcadella. Sono appena rientrati da una serata con amici, che hanno raggiunto nell’auto prestata al ragazzo dello zio, uguale a quella di un pregiudicato nei confronti del quale la mafia ha emesso una condanna a morte. All’improvviso la scarica di proiettili: Matteo muore, Cristina viene ferita alle gambe. «Forse finché non ci tocca non lo capiamo» dice adesso la donna. «Quando racconto la mia storia nelle scuole, i ragazzi restano senza parole, non si aspettano che la mafia possa essere così vicina. Gli ultimi fatti di cronaca sono preoccupanti, spero che il 21 marzo molti veneti partecipino alla manifestazione».

L’esortazione di don Ciotti

Negli ultimi anni, però, secondo don Luigi Ciotti i segnali per capire che qualcosa stava cambiando sono stati tanti ed evidenti: «Credo che il Veneto abbia gli anticorpi per poter reagire ma con grande rispetto dico che mi stupisco di chi si stupisce. Non sono infiltrazioni ma radicamenti che vengono da lontano». Per don Ciotti di fronte alle tante dimostrazioni documentate «molti hanno voluto rimuovere per non dare un’immagine negativa di questa Regione. Ma questa è la mia terra, e io la amo. E un atto d’amore è anche vedere le cose che non vanno per migliorarle e dire che il problema non è solo chi fa il male ma anche chi lo vede fare e non interviene».

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