16 novembre 2018 - 09:09

Il sindaco Merola: «Partecipazione antidoto al populismo di oggi»

Il primo cittadino: «Con l’attivismo dei cittadini diamo un esempio al Paese»

di Luciana Cavina

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Il sindaco Virginio Merola
Il sindaco Virginio Merola

Democrazia partecipata, integrazione, apertura al mondo. Per il sindaco Virginio Merola lo sviluppo Bologna passa da questi canali. Soprattutto, dall’attivismo dei cittadini: «Così — sottolinea — possiamo dare un esempio a questo Paese». Reduce dal viaggio in Cina con BolognaFiere, il primo cittadino guarda con attenzione alla gara che si è innescata tra i cittadini per votare i progetti di quartiere del Bilancio partecipativo. Una sorta di bene immateriale che, si augura, potrebbe trovare nuovi adepti, in altre città. E poi c’è Fico, che ha in sé la vocazione a varcare anche i confini nazionali: «Già i cinesi — conferma — ce lo vorrebbero copiare».

Partiamo dal bilancio partecipativo, prevede sviluppi?

«Questo strumento è una fase della pianificazione dell’urbanistica partecipata. Siamo abituati a prendere decisioni consultando i cittadini».

I bolognesi hanno sempre risposto così massicciamente? Non mancano nemmeno di esprimere il proprio dissenso...

«Esprimere opinioni o suggerire cambiamenti è un processo democratico e di crescita. Adesso chiamiamo i cittadini a partecipare a piccoli progetti, a fare proposte che coinvolgono il loro quotidiano, lo stile di vita. È un metodo che funziona, certo poi si può estendere a iniziative più vaste».

In che modo la democrazia partecipata può essere di esempio per altre città?

«Diamo l’esempio della possibilità di creare una leva di cittadini attivi che non si limita a chiedere, ma prima di tutto fa. Per se stessi. E per la comunità. Pronti a mettere le proprie capacità a disposizione del bene comune. E le amministrazioni devono essere disponibili a investire risorse. È un modello di condivisione: il contrario della direzione che sembra prendere l’Italia».

Una risposta per contrastare il populismo?

«Si combatte il populismo rafforzando la democrazia partecipativa. Oggi siamo ridotti a sudditi del capo o a clienti che comprano. Ma ingaggiare cittadini attivi, per decidere insieme cosa fare e per sostenere progetti autonomi significa dare potere alle persone di fare per sé e per gli altri».

Lei ha seguito BolognaFiere nella sua espansione in Cina. Anche Fico si apre su quel fronte. L’Asia è il nuovo approdo per Bologna?

«I cinesi sono molto interessati a Fico, credo siano intenzionati a replicare l’esperienza. E non è detto che non lo facciano prima di quanto ci aspettiamo».

Fico vanta un anno di successi, ma sotto le aspettative. Che cosa è mancato?

«La comunicazione, una pubblicità massiccia. Solo quello. Ha iniziato a fare pubblicità in radio e tv nazionali ad agosto. La gente mi fermava per strada per chiedere cos’era Fico. Bisogna lavorare sui pacchetti turistici».

Alla luce del primo bilancio, per il Comune il parco alimentare è stata una buona scelta?

«Resta un grande affare. Adesso abbiamo un centro agroalimentare nuovo, tecnologicamente avanzato e noi abbiamo messo solo i capannoni, di cui tra l’altro non sapevamo cosa fare. I grandi investimenti in denaro sono solo privati».

Se si fosse costretti a vendere la quota del Caab?

«Abbiamo l’80 per cento. Scendendo anche sotto il 50, otterremo 30 milioni cash. Era una realtà piena di debiti e con l’operazione Fico siamo rientrati di 12 milioni. Guardando solo ai conti del Comune, ci bastano i 3 milioni di pubblico di cui ha parlato Farinetti, non ci sarebbe bisogno di incrementarlo».

Il pubblico è turismo: un settore che va incentivato?

«Bologna Welcome sta già andando molto bene. E quando dico che bisogna puntare sulla cultura, penso a una visione più ampia di cultura: strutturale, che includa l’istruzione, la scuola e le politiche di integrazione. Le città del futuro giocano sulla capacità di tenere insieme più punti di vista. La convivenza è un asset, tenendo conto che in città ci sono sempre più anziani e 80 mila studenti. Dobbiamo riuscire ad attrarre nuove persone».

Anche immigrati?

«Il nostro deve essere un modello di integrazione aperto che dimostri che il dibattito tra accoglienza e non accoglienza è superato e si basa su una percezione distorta della realtà e del numero reale di immigrati».

L’integrazione passa dal lavoro: è un obiettivo praticabile?

«Il recente studio di Confindustria ci dice che mancano figure tra le professionalità tecniche. Possiamo progettare gli ingressi e definire le quote anche in base ai settori occupazionali scoperti».

Sembra insistere molto sulle strategie di apertura all’esterno. Anche con la Fiera lavorate per l’internazionalizzazione: perché sembra più difficile trovare alleanze in Italia?

«La nostra Fiera è la seconda in Italia per fatturato dopo Milano. Va avanti da sola, perché in questo Paese ci sono 5 o 6 fiere che a quanto pare preferiscono farsi concorrenza. Non ha senso. Dovremmo stare tutte insieme sotto una fiera nazionale, perseguire un modello di integrazione come Hera».

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