16 febbraio 2019 - 08:41

La riforma rischia di finire nella tenaglia (tra Sud e Nord)

Il Governo rallenta l’autonomia chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna

di Alessandro Russello

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Il governo a bassa velocità, dopo aver fermato la Tav - destinata al binario morto o in alternativa penalizzata da un compromesso al ribasso - rallenta anche l’autonomia chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, autonomia salita sulla locomotiva lanciata contro una rivendicata ingiustizia («Il Nord paga e il Sud spreca») e ora pericolosamente vicina allo scartamento ridotto. Per cui la fine del percorso propositivo del regionalismo differenziato sancito dalla bozza d’intesa con il governo centrale che sembrava preludere all’inizio di una nuova stagione, rischia di diventare l’inizio della fine. Un’autonomia potenzialmente stritolala in una tenaglia del consenso il cui orizzonte è rappresentato dalle prossime elezioni europee. Con l’M5S che prenderà sempre più le difese del Sud e l’ex Lega padana in versione sovranista che dovrà vedersela con il seguente sudoku: difendere le istanze del Nord e la ragione sociale per la quale è nata (il federalismo) e al contempo garantire al Sud che un solo euro non gli sarà tolto. Una nemesi, per Salvini. Che nell’amorevole guerra tra i due vice premier ha il compito più duro. Mai il Capitano avrebbe pensato di dover tenere calmi i suoi prendendo (anche) le parti di un Meridione storicamente allergico al partito del Nord e ora sempre più pronto a salire su Carroccio (dall’expoit delle politiche a Reggio Calabria allo stellare 40 per cento dell’Abruzzo, seppur in coalizione).

Il coraggio

Nessuno nella Lega avrà mai il coraggio di mettere in discussione l’uomo che ha conquistato l'Italia raccogliendo con il cucchiaino il partito liquefatto nel 3 per cento dello scandalo diamanti. Ma i governatori Luca Zaia e Attilio Fontana non stanno sicuramente dormendo notti tranquille. Dopo i milioni di voti raccolti con due imponenti referendum e la prospettiva di uno storico passaggio rappresentato dall’ottenimento dallo Stato di strategiche competenze e della compartecipazione del gettito fiscale generato da Irpef, Ires e Iva sui territori, rischiano di veder svanito o ridimensionato il loro sogno: vincere la «madre di tutte le battaglie». Ma anche per la stessa Emilia, guidata dal governatore dem Stefano Bonaccini e firmataria di una bozza certo meno «radicale» di quella veneto-lombarda, il viaggio verso il regionalismo differenziato non sarà comodo. L’effetto tenaglia rischia di far transitare sul binario semimorto anche la Regione che ha maggiormente coniugato nella sua proposta la rivendicazione autonomista con quella solidale. Quello di giovedì scorso, per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, doveva essere il grande giorno. Con la ricezione, da parte del premier Conte, della «bozza d’intesa» confezionata dopo un lungo lavoro da Erika Stefani, il ministro (leghista) per gli Affari regionali e le Autonomie. Sappiamo com’è finita. Con Salvini arrivato con un tot di ritardo al consiglio dei ministri e il premier Conte uscito prima che Salvini entrasse. Altro che giorno «storico».

La rivolta del Sud

E’ successo che «sul traguardo» l’intero Sud si è rivoltato contro la «secessione dei ricchi» e che i Cinque Stelle, pur dichiarandosi sempre favorevoli alle autonomie regionali (dopo aver infilato una serie di «no» durante la trattativa) hanno presentato una sorta di contro-dossier nel quale si ravvisa l’incostituzionalità della bozza Stefani. Contro-dossier da cui prendono a loro volta le distanze i 5 Stelle del Nordest, («al Sud fanno terrorismo»). Insomma, un caso Tav al contrario. Con la Lega a difendere la bontà di una riforma peraltro incardinata nell’articolo 116 della Costituzione (paradossalmente partorita dal centrosinistra nel 2001) e l’M5S lesto a intravvedere l’occasione di riconquistare i consensi perduti in questi mesi diventando ulteriormente il «sindacato del Sud». Di fatto, giovedì l’Italia ha «scoperto» il sopito (non certo nel Nordest) nodo dell’autonomismo, riproposto dalla Lega dopo l’abbandono della devolution, accantonato durante gli anni della Grande Crisi e riemerso con la celebrazione dei referendum di Veneto e Lombardia. Un processo che a dispetto di una «questione meridionale» ha posto il tema della «questione settentrionale». Tradotto con la metafora iniziale: oliare la locomotiva (il Nord) per trainare tutti i vagoni (il Sud). Non solo o tanto attribuendo più risorse, ma dando la possibilità alle regioni che l’autonomia l’hanno richiesta di gestirle direttamente in parte sul territorio (sottintendendo in modo più virtuoso).

L’ipotesi di riforma

Un’autonomia la cui stella polare è rappresentata dalle (irraggiungibili) Province autonome e «speciali» di Trento e Bolzano, non toccate dall’ipotesi di riforma approdata al consiglio dei ministri ma non esenti da un costante confronto con Roma. Sia per difendere le proprie prerogative sia ottenere ulteriori forme di autonomia. Emblematica la difesa della «cassaforte» della società che gestisce l’A22 del Brennero, sulla quale ha messo occhi e mani Toninelli. E indicativa, da parte della Provincia di Bolzano, l’idea di ottenere - sulla scorta della richiesta veneta - maggiori competenze in ambito ambientale. Insomma, autonomia trascina autonomia. Sud permettendo. Con qualche avvertenza. Se il tema del federalismo solidale non è derogabile e va difeso (ad esempio per la tenuta dei livelli di assistenza), non sembrano tollerabili dinamiche di spesa che vedono all’opera in ospedali omologhi il doppio dei medici o dei primari. Difficile dar torto a Zaia quando sostiene che la cattiva sanità del Sud non è certo attribuibile alla «secessione dei ricchi». Poi, se il metodo sia quello di uno «strappo» nel solco della Costituzione o di una riforma generale in un paese irriformabile si può anche discutere. Ovviamente non per l’eternità.

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