30 maggio 2019 - 10:31

Cofferati si congeda dall’Europa: «La politica a 71 anni? Vedremo»

Il 2 luglio finirà il mandato a Bruxelles: «A Bologna l’unica vera novità è Zuppi»

di Marco Marozzi

shadow

Il pubblico da ripensare, il privato sempre più importante. Sergio Cofferati è il racconto di una generazione. Ha 71 anni. Il figlio Edoardo, 11, è con lui a Genova; Simone, laureato in economia, sta in Germania. Lui fu eletto segretario Cgil 25 anni fa, sindaco 15. Il 2 luglio finirà il mandato di europarlamentare. «Non ho nulla da fare. Vedremo, ci devo pensare bene».

Bene? «Il 9 giugno 1969 varcavo i cancelli della Bicocca. Sono passati 50 anni. Mi ero diplomato perito elettronico, il 7 gennaio ’68 ero partito per servire la Patria. Ufficiale d’artiglieria contraerea».

Da comunista, nel ’68? «Per di più in reparti Nato. Avevo fatto domanda, i carabinieri mandarono un maresciallo a casa mia. Stava chiedendo informazioni alla portinaia quando arrivai io. Capelli lunghi, basettoni... Lei mi spedì via malamente “Vada, per lei non c’è posta”. Quando tornai le chiesi perché mi aveva trattato così. “Per non farti riconoscere, mi rispose, il maresciallo ti aveva guardato di brutto: non sarà quel tipo lì?”».

1969? Anno di congedi militari e di avvii professionali? «Mi chiamarono per un colloquio all’Ibm e alla Pirelli. Il colosso che punta sull’Italia e l’azienda italiana che punta sul mondo. Scelsi questa. Avevo visto gli impiegati che facevano sciopero, i picchetti».

Avanti popolo? «Pensavo. Poi in azienda non era proprio così. Fu una lezione politica importante».

Continuerà a fare politica? «A occuparmi di politica. Come e dove, si vedrà».

Come vede la situazione della sinistra in Italia? «Più che disastrosa. C’è stata una svolta a destra impressionante, uno spostamento mai visto nella storia repubblicana. In Italia e fuori».

Perché è successo? «I leader non hanno percepito la crisi che dagli Usa stava arrivando in Europa e da finanziaria diventava sociale, economica, umana. Puntavano sulla “terza via” di Blair ed è stato un fallimento. Sono cresciute le diseguaglianze, sono stati ridimensionati il welfare, la protezione sociale, i diritti. Ma nel 1993 il Libro Bianco di Jacques Delors, poi il Trattato di Lisbona, avevano dato all’Europa una straordinaria opportunità per competere sul mercato globale. Allora la maggioranza dei governi era di sinistra, ma non han fatto nulla».

Nemmeno Romano Prodi? «Quella è stata una bella stagione. In Italia con l’Ulivo. In Europa con l’impresa della moneta unica, il tentativo di creare un’altra Unione, osteggiato anche da chi avrebbe dovuto sostenerlo».

Prodi pensava che voi due avreste fatto un tandem verso Palazzo Chigi. «Non c’erano le condizioni. Per diventare il vicepresidente del Consiglio bisognava avere prima un ruolo riconosciuto nei Ds. Una mia candidatura avrebbe spaccato il partito».

Chi le era contro? «Massimo D’Alema».

E allora venne a Bologna. «A Roma al partito non ne sapevano niente. Fu una decisione... privata. Di fare il sindaco me lo chiesero il segretario di Bologna, Salvatore Caronna, e quello regionale, Roberto Montanari».

Dieci anni dopo, come vive la sua Bologna? «Personalmente fu un’esperienza molto interessante e positiva. Nel 2009 non mi sono ricandidato per ragioni personali. Per dare una forma piena a un’attività amministrativa ci vogliono almeno due mandati».

Rimpianti? «Ero consapevole delle esigenze della mia famiglia»

Crede di avere illuso e deluso i bolognesi? «Credo che alcune delle cose del mio mandato siano state importanti. Sicurezza e immigrazione: argomenti diversi, invece si tende a metterli insieme. L’aeroporto: quando arrivai era in completamento la nuova pista, i passeggeri era 2 milioni l’anno. Il People mover lo decidemmo noi, dopo avere archiviato l’ipotesi ridicola di una metropolitana centro-collina».

Che cosa ha sbagliato? «Molto. In una città così legata alle sue radici ho pagato il fatto di essere un esterno».

Le pesa che la chiamassero Sceriffo? «Era spregiativo. Ma per me lo sceriffo è quello dei racconti western, del mio Tex Willer: difende i poveri, i deboli, la legge».

Cos’era l’imprenditoria bolognese nell’epoca Cofferati? «Un orientamento politico moderato, imprese grandissime: Vacchi, Seràgnoli, Marchesini, Bonfiglioli…».

E le coop? «Era un sistema economico con elementi di forte contraddizione. Tratti che arrivavano dall’800 e grande attenzione alla contemporaneità. Sono state le prime a interessarsi si alimentazione e ambiente».

Ora?«Non riesco a capire quale è la loro identità. Mi sembrano molto più imprese che cooperative».

La Bologna intellettuale? L’università? «Stesso discorso: non si intravvede un’identità».

In molti vedono una quasi involontaria egemonia culturale dell’arcivescovo. «Monsignor Matteo Zuppi è la vera novità di questi anni. È arrivato in una Curia con figure di alto profilo orientate in senso conservatore. Non lo conosco ma da fuori, si percepisce come il capo vero, che coglie gli elementi culturali e connette la prassi religiosa coi cambiamenti della società».

Del sindaco Merola, del presidente Bonaccini che dice? «Bisogna fare tutti gli sforzi possibili per non perdere una grande storia che va aggiornata, ma difesa».

Liste civiche sì o no? «I comunisti a Bologna si presentavano come Lista Due Torri, tutti sapevano che erano il Pci, ma significava non perdere il valore delle radici».

Casini, suo avversario Dc, ora è col Pd: utile o intralcio? «Utile. Mi pare si sia orientato in maniera diversamente avanzata rispetto a prima: e ama molto la sua città».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA