15 agosto 2022 - 09:54

Neri Parenti: «Quella volta che Paolo Villaggio scappò dal set in mongolfiera. I cinepanettoni? Un’onta»

«I film Boldi-De Sica specchio della società. Se proponi un film che fa ridere, ti guardano male. Non si possono più fare battute su omosessuali o donne di facili costumi»

di Edoardo Semmola

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«Quando ero bambino, vicino a casa, in Oltrarno, la sala parrocchiale degli Artigianelli con cento lire ti faceva vedere due film con un panino al pomodoro o un acqua e zucchero. Non davano film di prima visione, e solo quelli approvati dalla censura del prete, ma quasi tutti i pomeriggi dei primi anni Sessanta, io e il figlio dell’editore Olschki, il mio migliore amico allora, ci siamo concessi molte proiezioni. Tiravi due calci al pallone dopo pranzo e poi dove andavi, se non al cinema? Ivanohe e Il Corsaro dell’Isola Verde li avrò visti dieci volte ciascuno. È grazie a loro che mi è rimasta la passione per i film di avventura».

Neri Parenti sulla sedia da regista è arrivato presto. Grazie soprattutto al suo essere bilingue: figlio del rettore dell’Ateneo fiorentino Giuseppe Parenti e di madre britannica, era tra i pochi a padroneggiare l’inglese così bene da trovarsi presto spalancate le porte di Cinecittà in una stagione, i primi Settanta, in cui il cinema italiano si stava aprendo agli attori stranieri. Due anni fa nel libro Due palle di Natale ha svelato come sia giunto per caso alla commedia. In realtà il suo sogno era diventare uno Spielberg italiano e dirigere film d’avventura. «Sognavo Indiana Jones. Ma non ho mai potuto nemmeno avvicinarmi, peccato — sospira — In Italia per via dei costi e di attori considerati poco credibili per quei ruoli, non c’era verso: su un Indiana Jones italiano non avrebbe scommesso nessuno».

Com’è entrato nel mondo del cinema?

«Era il 1967, avevo 17 anni, subito prima della contestazione, e partecipai a un concorso che tra Lazio, Emilia Romagna e Toscana metteva in palio degli apprendistato nel giornalismo. Mi classificai terzo. Il primo lo presero a LaNazione, il secondo al Resto del Carlino. Al terzo era riservata la Rai, a Roma. Per fortuna mio padre, docente di statistica e presidente dell’Inarcassa che aveva contribuito a creare l’Isolotto a Firenze e il Villaggio olimpico a Roma, aveva una casa là. Ma alla Rai non sapevano cosa farsene di un diciottenne fiorentino che nemmeno conosceva la città. Stavano co-producendo Addio fratello crudele di Patroni Griffi con Fabio Testi, Olivier Tobias e una giovane Charlotte Rampling, e mi mandarono a fare il reportage dal set. Non avevo mai visto realizzare un film. Ma da bilingue ero tra i pochissimi a capire cosa diceva la Rampling, sempre imbufalita, mentre si lamentava che il bagno era sporco, il cestino del pranzo faceva schifo, la costumista le aveva stretto troppo il vestito, o protestava perché voleva il weekend libero per visitare Firenze. Entrai nelle grazie dell’organizzazione e mi presero come braccio destro per altri film con attori americani. Poi una cosa tira l’altra».

La gavetta è stata fare da aiuto regista a Pasquale Festa Campanile...

«E poi con Steno con cui ho fatto la serie dei Piedoni con Bud Spencer. Quando girammo Piedone l’Africano in Namibia ci fu una tempesta di sabbia che mandò all’aria mezzo film e per rimediare venne deciso di dividere il lavoro in due unità: mi affidarono la parte inglese e sudafricana, di fatto realizzai da solo metà film».

Il suo debutto da regista però fu una parodia de La febbre del sabato sera...

«Mi offrirono questo John Travolto perché mi stavo specializzando nelle commedie. Era un film assurdo dove fu ingaggiato un cuoco, Giuseppe Spezia, che non sapeva recitare ma era un sosia perfetto di John Travolta. Fu un flop. Però venne venduto in tutto il mondo, perché Spezia era talmente uguale a Travolta che molti pensarono fosse quello vero. Così il produttore Goffredo Lombardo guadagnò moltissimi soldi e quando si trattò di affiancare Paolo Villaggio nella realizzazione dei vari Fantozzi, dopo che aveva divorziato da Salce e stavano lavorando al terzo film, chiamarono me: non si fidavano di Paolo Villaggio, volevano affiancargli qualcuno che sembrava innocuo. Cioè io».

Perché non si fidavano di Villaggio?

«Era un genio ma impossibile da gestire. Voleva per forza partecipare alla stesura della sceneggiatura con Benvenuti e De Bernardi che però potevano lavorare con noi solo la mattina, perché il pomeriggio scrivevano con Sergio Leone C’era una volta in America. Ma Villaggio la mattina non veniva mai. De Bernardi convinse Leone a invertire: lui la mattina, Villaggio al pomeriggio. Ma Paolo non si presentava nemmeno il pomeriggio. Quando gliene chiesero conto, da mascalzone geniale, rispose “preferisco non venire di pomeriggio”. E scappò via».

Addirittura scappò?

«Una volta in Kenya lo fece letteralmente. Mentre stavamo girando ci guardò e disse “devo andare un attimo in bagno”. Cinque minuti dopo alziamo lo sguardo e vediamo una mongolfiera che se ne andava con lui a bordo. Disse “eh, ormai l’avevo prenotata”».

Un rapporto complicato...

«Paolo diceva che eravamo come padre e figlio. Il punto però, era che lui era il figlio e io il padre. Ma alla fine abbiamo fatto 20 film».

Lei ha lavorato con tutti i mostri sacri della comicità anni Ottanta e Novanta: Villaggio, Lino Banfi, poi la stagione dei cinepanettoni con Boldi e De Sica. Un mondo che non esiste più…

«Ai tempi dei “mostri sacri” in Italia si giravano 300 film all’anno. Ora se ne fanno 30 e anche se abbiamo attori bravi, come Favino e Mastandrea, si è creato un solco tra il mondo della farsa, che facevamo io e i Vanzina, e i film da David di Donatello. Anche gli attori si sono spostati in quella direzione. La differenza è tutta nella quantità: Mastroianni girava Una giornata particolare e Ieri oggi e domani. Sordi faceva Il vedovo e Un borghese piccolo piccolo. Quando i film sono diventati pochi, è cambiato tutto».

Con i cinepanettoni si è attirato tante critiche. Si aspetta che vengano riscoperti in senso positivo come è avvenuto con Franco e Ciccio?

«Per Villaggio e i suoi Fantozzi è accaduto. Ma i cinepanettoni sono ancora considerati un’onta. Non siamo arrivati ad “accettare” il mondo Boldi-De Sica. Sono farse e vanno prese come tali. Penso che quei film siano stati uno specchio della nostra società di inizio millennio: noi italiani eravamo così, il berlusconismo, un certo cinismo, uno stile di vita. Erano film politicamente scorretti che facevano ridere. Oggi se proponi un film che fa ridere, ti guardano male. Non si possono più fare battute sugli omosessuali o le donne di facili costumi: ti salterebbero al collo. Tutto va trattato coi guanti bianchi, e se metti i guanti bianchi a quel tipo di commedia, l’ammazzi in partenza».

Il film che ha subito forse più polemiche di tutti è stato il prequel di Amici Miei ambientato nel Rinascimento...

«Eppure l’idea nacque molti anni prima, con Monicelli. E con gli attori originali. Poi, per vari motivi, tra cui la morte di Ugo Tognazzi, fu accantonato, ma il soggetto era scritto. Dieci anni dopo, lavorando con Benvenuti e De Bernardi, ci sembrava un’idea molto bella. Monicelli era ancora vivo e io avrei dovuto aiutarlo. Poi cambiò idea e Piero e Leo decisero di proporlo a De Laurentiis che volle rivoluzionare il cast: non più Alessandro Benvenuti, Marco Messeri e Gerard Depardieu come in origine, perché a suo dire non erano comici puri. Dovevamo iniziare a girare a Volterra quando De Laurentiis ebbe paura dei costi troppo alti e impose attori di cartello. Hanno detto che abbiamo profanato qualcosa di sacro, ma a noi non sembrava di profanare niente, con quelle premesse».

Di cosa va più orgoglioso?

«Di aver fatto 52 film avendo litigato con un solo attore».

Chi?

«Con Anna Maria Barbera, la “Sconsolata”, di Christmas in Love, dove c’è anche Ron Moss, il Ridge di Beautiful che ha un’amnesia e lei gli fa credere che siano sposati. A un certo punto iniziò a sostenere che Ron non mostrava abbastanza passione sul set, si sentiva colpita nel suo femminile, si impuntò e non voleva più dire le battute. Povero Ridge, non capiva l’italiano, non si rendeva conto di nulla. Per convincerla a finire il film è dovuto venire De Laurentiis con l’elicottero. Finimmo le riprese senza parlarci».

Alla sua passione per il calcio ha dedicato il film Tifosi...

«Sono tifosissimo della Fiorentina e quando Cecchi Gori era presidente avevo un’esclusiva con lui e andavamo sempre a parlare dei film alla Certosa del Galluzzo insieme alla squadra in ritiro. Ho avuto anche un rapporto particolare con Batistuta, grande amante della caccia che si lamentava di non riuscire ad andarci per la troppa burocrazia. Gli ho fatto conoscere una persona che si occupava di queste cose e così è riuscito a cacciare in Toscana».

Che progetti ha per il futuro?

«Con la gente che non va più al cinema, e col fatto che i generi che faccio io vivevano del supporto dell’incasso al botteghino, la vedo difficile... La tv ha costi e tempi diversi e le piattaforme come Netflix vogliono film da vendere a livello internazionale, la commedia che si capisce solo in Italia non la prendono. Ma di andare in pensione non ho voglia».

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