17 ottobre 2018 - 09:13

Dieci anni, il bilancio di Betori

Il 26 ottobre 2008 il suo arrivo a Firenze: intervista con l’arcivescovo: «Contro il degrado più offerta culturale. I momenti peggiori? Legati ai preti pedofili. Combatto i pregiudizi, anche su di me»

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Eminenza, il 26 ottobre saranno dieci anni che lei è a Firenze. Qual è stato per lei il momento più bello e quello più brutto.

«Le vicende legate alla pedofilia hanno segnato senz’altro i momenti più brutti, perché bisogna riconoscere come il male aggredisce anche la Chiesa con i suoi uomini e prendere atto della nostra fragilità come Chiesa».

Lei è arrivato in città quando il caso di don Cantini era una ferita ancora aperta...

«Sì, ho gestito il caso don Cantini, e anche il post Cantini».

Poche settimane fa però è esploso il caso di don Glaentzer, a Sommaia. Ancora la pedofilia di un sacerdote. Secondo lei la reazione della Chiesa all’emersione del fenomeno è stata adeguata? Il danno, anche di immagine, è stato tremendo.

«Il danno, innanzitutto, è quello provocato sulle vittime. Anche fosse successo una sola volta nella storia della Chiesa, in una sola parte del mondo, sarebbe già una trauma per la nostra fedeltà al Signore».

Lei è andato a Sommaia dopo l’allontanamento del parroco: che impressioni ne ha tratto?

«La comunità di Sommaia ha reagito in maniera encomiabile, con grande umiltà, sofferente e fedeltà; ha capito che la Chiesa va oltre gli uomini e le loro miserie. Per questo, è fondamentale la trasparenza. E serve il coraggio di affrontare questi casi sia sul piano civile che su quello ecclesiastico».

Ma la Chiesa come può fare prevenzione?

«Deve fare due cose. Prima di tutto un grande lavoro di valutazione della personalità di chi si presenta per svolgere un ministero. E da questo punto di vista siamo partiti subito, facendo un severo screening sia psicologico che psichiatrico. Poi c’è un percorso di tre anni obbligatorio per tutti. Alla fine, se si verifica la presenza di quelle che io chiamo ferite psicologiche profonde si prendono le necessarie decisioni. La seconda cosa da fare come prevenzione è un percorso di valutazione e accompagnamento durante il ministero pastorale; ma in questo caso dobbiamo trovare delle forme che ancora non abbiamo. Il prete oggi è solo, e nella solitudine non può contare su un sostegno culturale attorno a sé. Questo è un problema da risolvere».

E il momento più bello di questi dieci anni?

«La visita pastorale, direi. Un momento che si rinnova ogni volta e che mi dà gioia. La visita pastorale mi permette di stare vicino alle persone e di abbattere un po’ di pregiudizi su di me e sulla Chiesa. Sistematicamente la gente, a fine visita, mi dice: lei è diverso da come sembra... Si vede che c’è un’immagine del ruolo dato dalla comunicazione che impedisce di vedere l’umanità del vescovo. A me non interessa stare simpatico. Anzi, Gesù dice di stare attento quando la gente dice bene di te. Ma vorrei che la mia persona non fosse di ostacolo al ministero e al cammino della Chiesa. La visita pastorale permette anche di far capire posizioni che possono sembrare rigide, eliminando molti dubbi. La seconda cosa bella di questi dieci anni è l’aver visto il legame che c’è tra le istituzioni e i soggetti sociali che portano carità, dando un aiuto fondamentale. Devo ringraziare tutti: amministrazioni, forze dell’ordine, società di pubblica assistenza, Misericordie, i volontari. Tutti contribuiscono a dare un’immagine forte della città: Firenze, al di là di tutto, ha istituzioni che tengono».

Tra i ricordi ci sarà l’attentato.

«Devo dire che l’ho rimosso. Da subito per me non è stato più un problema. Il fatto mi ha meravigliato, certo. Non pensavo che si potesse giungere a un gesto del genere, vuoi per denaro, o per mettere il vescovo in difficoltà. E ho provato molta compassione. Poi ho voltato pagina: la vita continua, anche se un po’ meno felicemente per il caro don Paolo (l’allora segretario di Betori, rimasto ferito nell’attentato, ndr) che porta con sé i segni fisici di quel fatto».

Lei ha voluto recuperare nella sua interezza il valore dell’esperienza della Chiesa fiorentina del Novecento, la Chiesa dei «folli di Dio». È un’operazione conclusa? E quanto rimarrà di questo recupero?

«Ho sentito questo recupero come uno dei miei doveri appena arrivato a Firenze. Il cattolicesimo fiorentino del Novecento è un patrimonio non solo nostro, ma della Chiesa intera. Le prime parole che ci siamo scambiati con Papa Francesco sono state sulla grandezza del cardinale Elia Dalla Costa e su Giorgio La Pira. E il Papa ha fatto subito suo il messaggio di don Milani. Abbiamo avuto una grande eredità e come ogni eredità occorre stare attenti a non dilapidarla, tradendola nel suo significato. Negli anni c’è stato un uso della memoria non sempre scevro da interessi, specie su don Milani».

Si può dire che le cose sono state rimesse a posto?

«Il Santo Padre ci ha fatto il grande regalo della visita a Barbiana e delle sue parole sulla tomba di don Lorenzo. Papa Francesco è molto recettivo, pronto ad ascoltare. Me ne sono accorto anche in occasione della sua visita a Firenze per il convegno ecclesiale della Cei; ho avuto prima uno scambio con lui: due battute che poi, elaborate in modo molto più creativo da come le avevo dette io, sono diventate due dei punti di riferimento del suo discorso in Duomo. Ed ha centrato il cuore del messaggio di don Milani che è quello sacerdotale. Il vero problema adesso è la riflessione che sto cercando di avviare su come la pastorale di don Lorenzo Milani si possa applicare ai tempi di oggi, come nel convegno alla Facoltà di Teologia di cui stiamo pubblicando gli atti e che devono essere uno strumento di lavoro con i nostri preti».

Lei alla Facoltà di Teologia ha recentemente parlato delle omelie deboli: cosa può fare un vescovo su questo?

«I preti devono confrontarsi di più tra loro. E poi devono ascoltare di più. Tu fai una buona omelia se conosci e capisci le domande della gente, sennò parli di cose che non interessano; puoi anche entrare duramente nella vita delle persone, offenderle. Capire le domande di oggi è il compito della Chiesa, è quello che sta facendo Papa Francesco».

Il dopo Concilio è finito?

«No. I Concili durano secoli nella loro applicazione. Un solo esempio: il Concilio di Trento decise che si facessero i Seminari, ma da noi il Seminario è nato 250 anni dopo. Ci vogliono tempi secolari per applicare il Concilio».

Ma la Chiesa di oggi può reggere tempi secolari?

«È il mondo intero che non può più reggere tempi secolari, questo è il problema, la continuità nella continua discontinuità. Il problema è stare in questa storia dove il processo è la negazione e non l’aumento dell’esperienza tra una generazione e l’altra. Se la Chiesa vuole stare nel mondo deve misurarsi con l’aporia di questo mondo».

Perché nel recupero di tutte le esperienze del cattolicesimo fiorentino lei ha escluso la comunità dell’Isolotto e di don Mazzi?

«Il cattolicesimo fiorentino che ho cercato di valorizzare è il cattolicesimo fedele alla Chiesa. Don Lorenzo Milani è il sacerdote che ha messo più in crisi il suo vescovo, Florit, ma alla fine quello che voleva di più era il riconoscimento del suo vescovo».

Lei si è mai sentito imbarazzato in qualche modo di essere il successore del cardinale Florit?

«Io ho conosciuto Florit, l’ho filtrato attraverso il suo essere biblista, come relatore della Rei Verbum. Non era proprio adeguatissimo per lo studio della Bibbia ai tempi contemporanei ma l’ho sentito per così dire dalla mia parte (Betori ha curato la nuova traduzione della Bibbia edita dalla Cei, ndr). Io non ho paura a mostrarmi, ma per lui mostrarsi era un peso; ha pagato il suo carattere schivo nel confronto con il mondo fiorentino, come dimostra, se è vera, la sua frase sulla tomba di don Milani: “Non me lo avete presentato nel modo giusto”. Anche io non sono un campione di dialogo, ma la sua introversione era diversa dalla mia ruvidezza umbra. In più l’essere uomo arrivato da Roma per normalizzare la Chiesa fiorentina fu per lui un peso che portò per tutta la vita».

Lei come vorrebbe essere definito? Conservatore, progressista? Mi dirà che queste etichette non si confanno alla Chiesa, ma anche gli uomini di Chiesa non sono tutti uguali...

«Io mi considero figlio di tre padri nel mio episcopato. Il primo padre è il vescovo di Foligno Giovanni Benedetti, che seguiva il pensiero del teologo francese Henri De Lubac, del progressismo francese più avanzato, e lui mi ha aiutato ad aprirmi allo spirito del Concilio e ad una visione teologica libera e aperta; in questo senso mi sento nipotino di Paolo VI che era legatissimo a quel mondo francese. Il secondo padre è Carlo Maria Martini, non tanto per la persona in sé ma per l’ambiente che rappresentava, il Pontificio Istituto Biblico, pronto a misurasi con le dimensione storiche. È stato co-relatore della mia tesi, l’ha seguita e mi ha accompagnato fin dall’inizio. Il terzo è il cardinale Camillo Ruini che mi ha insegnato il governo nella Chiesa, nelle sue strutture interne e nel rapporto con la società; non la politica ecclesiastica. Ripeto per la centesima volta che Ruini non era un politico ma un uomo di cultura che non ha colto la crisi del cattolicesimo, ma ha colto la crisi culturale della Chiesa una volta liberata dalle stampelle della politica. Lui fece il grande disegno di avere un’anima culturale capace di interloquire con dignità con le culture della società nel nostro tempo. Questo è stato confuso con temi politici perché i temi culturali intersecano la politica».

Ma i valori «non negoziabili» della stagione di Ruini furono alla base di un avvicinamento di una parte politica precisa...

«Questo è vero. Lo scopo di Ruini però non era creare una maggioranza politica, ma di rendere significativi nella politica certi valori. Ruini mi ha insegnato a tenere insieme storia, parola di Dio e fede. Su quelli che ai tempi di Ruini si chiamavano valori non negoziabili, il Papa a volte prende posizione con parole così nette che Ruini si guardava bene dal pronunciare.... Non li chiama più non negoziabili ma, ad esempio, il Papa non ha indietreggiato minimamente sui valori della dignità della vita».

La parola che ha usato in questi giorni, «sicari», non contrasta con il Papa della Misericordia? L’aborto è comunque uno strappo doloroso per le donne.

«Prima di tutto Francesco non padroneggia l’italiano come la sua lingua materna, specie quando parla a braccio come ha fatto anche questa volta. Probabilmente voleva dire che non si può utilizzare gli altri per arrivare a un effetto, che nessuno può disporre della vita degli altri. Non ha parlato su un caso singolo, non ha condannato le donne, ma si tratta di rimuovere i motivi che possono indurre le donne o le famiglie a rinunciare a una vita».

L’immigrazione, tema caldissimo dal punto di vista culturale e politico. Qual è il messaggio che lei manda all’opinione pubblica?

«Prima di tutto c’è una verità di fede, che ogni uomo è mio fratello, che è cosa diversa dall’ugualitarismo, dal dire che ogni uomo è uguale a me. Nella Bibbia c’è una predilezione per l’uomo fragile, cioè l’orfano, la vedova, il forestiero, tutti e tre sullo stesso piano».

Ma la Chiesa si sente minoranza su questo messaggio?

«Il tema del numero non è mai stato rilevante per la Chiesa, Gesù ha detto: annunciate il Vangelo. Il problema non è sentirsi minoranza o meno su certi temi, è la fedeltà alla visione antropologica della dignità della vita, delle relazioni nella comunità, della povertà . Questi sono principi per noi irrinunciabili. Il prossimo, secondo Gesù, non è quello che mi sta più vicino, il mio popolo, l’etnia, il Paese, la mia città... Il prossimo sono io, è quanto io mi faccio vicino all’altro per essergli prossimo».

Lei è preoccupato di quello che sta avvenendo in Italia?

«Mi preoccupano gli effetti culturali. La migrazione è un problema epocale, come il cambiamento climatico e la capacità di educare, ma siccome non viene visto così è affrontato nella sua emergenzialità, e resterà un problema irrisolto. Le migrazioni ci sono sempre state, ma ce ne siamo dimenticati. Non esiste un popolo italiano senza le contaminazioni avvenute nei secoli. Il vero problema è la fragilità culturale del nostro Paese. È difficile incontrare qualcuno se non so chi sono io: da lì nascono le paure. Quando parlo con l’imam Izzedin, ad esempio, lui ha ben chiaro che cosa significhi il confronto con la mia cultura, il “non conquistare”: i suoi figli, ad esempio, devono sapere che cos’è il presepe a scuola».

Si farà la moschea di Firenze?

«Non sta a me dirlo. Io per la moschea di Sesto ho fatto un gesto che dice che non ho paura. In questi giorni di ricordo di Paolo VI (proclamato santo domenica, ndr) è emerso anche il suo netto no alla curia romana che gli chiedeva di opporsi a una moschea a Roma in nome della reciprocità, ma lui non disse: fate una chiesa alla Mecca se volete una moschea qui».

Gli avversari della Chiesa dicono: il Papa predica l’accoglienza, ma in Vaticano non ci sono immigrati.

«Il Vaticano è uno Stato giuridico, non è uno Stato di fatto; e non è, anche se il nome lo dice, una città, una comunità che può accogliere. Il Papa risponde come capo della Chiesa cattolica e la Chiesa cattolica sta facendo la sua parte, sia con proprie iniziative che assieme allo Stato e alle istituzioni».

Lo scontro sul Papa è molto forte, come lo sta vivendo la Chiesa fiorentina?

«Io vedo solo qualche piccolo cenacolo di intellettuali che avversa il Papa a Firenze: sono persone, non è un ambiente. L’enfasi che riescono ad avere questi circoli è frutto della comunicazione di oggi. L’opposizione verso il Papa c’è sempre stata, solo che oggi ci sono i social e se le accuse sono infondate è più difficile combatterle. Papa Francesco lo sa, ma non si lascia impressionare».

La Chiesa del futuro sarà sempre meno europea come cultura e personale ecclesiastico?

«Senza dubbio. Il salto transoceanico fatto con questo Pontefice lo indica chiaramente».

Questo vale anche per l’elezione del Papa?

«Ormai quello che conta è la capacità del Papa di incarnare la coscienza della Chiesa in quel momento. Questo è il segreto dell’elezione di Papa Francesco: non l’essere argentino, ma aver detto una parola che indicava un orizzonte».

Lei che ruolo ha avuto nel Conclave?

«Nessuno. Ho solo votato. Non ho parlato, non ho partecipato ai cenacoli, non sono stato invitato a cene tra cardinali... Il Conclave è molto sobrio, si svolge in silenzio. Le cose avvengono prima, nei 15 giorni prima del Conclave c’è la possibilità di confrontarsi, anche pubblicamente nelle sessioni di pre Conclave in cui ognuno ha tre minuti per parlare e l’ho fatto anche io».

Lei cosa disse?

«Dissi cose semplici. Che bisognava essere fedeli al Concilio Vaticano II e rinnovare la struttura ecclesiastica. Francesco, che poi mi ha detto di aver preparato il discorso in taxi prendendo appunti su alcuni fogliolini, fece un intervento tale che capimmo che navigava un metro più alto di noi nella prospettiva. Io non lo conoscevo, e del resto conoscevo pochi altri membri del Conclave, ma lui in tre minuti disse quello che poi c’è nella Evangelii Gaudium. E conquistò me e non solo».

Quale sarà il ruolo delle donne nella Chiesa?

«La donna, nella Chiesa come nella società, non deve prendere il posto dell’uomo. Ma vanno riformati gli assetti ecclesiali creando nuovi spazi e ruoli per le donne. Serve una riforma ben più profonda che il diaconato o il presbiteriato alle donne, anche se ci vorranno decenni».

Veniano a Firenze. San Marco. Il convento domenicano di Savonarola e di La Pira chiude. È un fatto che colpisce.

«Non sono io a deciderlo. Il superiore provinciale dei Domenicani, padre Tarquini, mi ha detto: “Non ho più frati”. Così a Firenze è stato deciso mantenere una sola comunità, a Santa Maria Novella. Ma la rettoria di San Marco non chiude, anzi. Ho appena firmato il decreto che la affida a padre Luciano Santarelli. Ho parlato poi con il padre generale dei Domenicani e chiesto che fosse la curia generalizia a tenerlo, facendo arrivare monaci da tutto il mondo, magari appassionati d’arte, ai quali affidare la cura del convento; mi ha risposto che non è possibile, che già fanno fatica a reggere la curia generalizia grazie ai domenicani di diversi Paesi. Ma resto dell’idea che questa sia la soluzione e spero che questo possa ancora succedere».

Grazie al Papa?

«Il Papa sa, è informato. Ma è difficile che un Pontefice faccia un atto che contraddice la decisione di un Ordine. Certo c’è stato Leone X che tolse ai frati carmelitani il convento in San Frediano per darlo al vescovo di Firenze...».

In questi dieci anni Firenze è cambiata moltissimo per l’invasione del turismo mordi e fuggi. Lei si scontrò con l’allora sindaco Matteo Renzi sul degrado: i fatti le hanno dato ragione. Rimedi?

«Il problema è che se tu non proponi qualcosa di alto livello culturale inevitabilmente il becerume occupa gli spazi. La nostra offerta culturale è “guarda e via” e invece è fondamentale fare altre proposte, dire che qui bisogna fermarsi.Ora c’è questo mito delle liberalizzazioni, ma bisognerebbe proibire i grembiuli con le pubenda del David, di vendere gondole e simili... C’è poi anche un problema di offerta culturale sulle nostre piazze, spesso occupate da mercatini. E mi lasci dire una cosa sulle chiusure domenicali dei negozi».

Che cosa?

«La mia opposizione alle aperture nei giorni festivi non è per motivi religiosi, ma antropologici. Una delle conquiste della nostra cultura e civiltà è la differenziazione, la qualità del tempo. In gioco non c’è tanto lo stare in famiglia o l’andare a messa, ma proprio la qualità del tempo, il non essere solo un ingranaggio o di produzione o di consumo».

Non c’è solo il turismo. C’è anche un diffuso decadimento del senso civico dei fiorentini...

«È anche in questo caso un problema di cultura. Certi atteggiamenti sono assolutamente intollerabili».

Prossime sfide?

«Innanzitutto la seconda parte del cammino sinodale: dal confronto nella comunità si deve passare al confronto della comunità cristiana con la società. La sfida è quella dello “specchio” per confrontarsi, di vedere come gli altri ci vedono e che cosa si attendono. La seconda sfida è la formazione dei nostri preti, l’accompagnamento delle giovani generazioni con dieci anni di formazione del clero».

Eminenza, resterà a Firenze?

«Mi mancano tre anni e mezzo al compimento dei 75 anni (età in cui vescovi e cardinali lasciano la cattedra, ndr) e cercherò di viverli facendo fino in fondo il vescovo, finendo la visita pastorale che mi impegnerà per altri due anni. I fiorentini sappiano che non tirerò i remi in barca, ma non mi auguro il prolungamento dell’incarico. Se il Papa me lo chiederà sarò obbediente, come sempre, ma non sarò io a cercarlo...».

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