17 settembre 2018 - 14:03

Petti: «Aiutate l’agricoltura
o ce ne andiamo»

Il brand toscano dei pomodori è diventato il terzo in Europa, è cresciuto del 126 per cento e dà lavoro a duemila persone. Ma ora minaccia di spostare tutto da Venturina all’Emilia Romagna

di Silvia Ognibene

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Un altro anno nero per il pomodoro da industria con la produzione crollata del 30 per cento, un appello alla Regione per risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico e la minaccia di trasferire lo stabilimento da Venturina (Livorno) nella vicina Emilia Romagna. Non usa mezzi termini Pasquale Petti, 36 anni, alla guida dell’azienda di famiglia nata nel 1923 in Campania, presente in Toscana tramite la società del gruppo Italian Food che trasforma e commercializza i prodotti del marchio Petti.
Nel 2018 avete alzato il prezzo pagato agli agricoltori a cento euro, il 20% in più di quanto concordato a livello collettivo per la raccolta 2018 al Centro Sud. Perché?

«Lo abbiamo fatto per aiutare gli agricoltori al termine di una campagna davvero difficile a causa delle piogge primaverili, nella stagione dei trapianti. La Toscana è una delle regioni maggiormente colpite dal maltempo e il risultato è un crollo della produzione del 30 per cento. Se non avessimo alzato il prezzo, i nostri fornitori avrebbero venduto il pomodoro ad altri acquirenti. Abbiamo scommesso sulla filiera del cento per cento toscano e abbiamo fatto questa scelta per fidelizzare gli agricoltori che ci vendono il loro prodotto».

Fate business con la generosità?

«Siamo costretti a farlo, per un insieme di fattori. Ma non possiamo continuare. E se non verranno risolte le cause strutturali per cui produrre pomodoro da industria in Toscana è tanto sfavorevole, sono pronto a trasferire lo stabilimento di Venturina in Emilia Romagna».

Forse troverete il maltempo anche lì.

«Il primo problema è che la Toscana, pur trovandosi al Centro Nord, per una serie di accordi, paga agli agricoltori il prezzo stabilito per i fornitori del Centro Sud: 87 euro a tonnellata, contro 79. Al Sud viene riconosciuto un incremento di prezzo perché si fa ancora la raccolte prevalentemente a mano, mentre in Toscana è tutto meccanizzato, come in Emilia Romagna, ma si paga lo stesso di più. La seconda questione, fondamentale, è la carenza di infrastrutture per l’irrigazione dei campi: in Toscana non ci sono, in Emilia Romagna sì. E la raccolta del 2018 viene dopo un altro anno terribile, il 2017, funestato dalla siccità».

Una volta troppa acqua, un’altra troppo poca...

«Fino a due anni fa in Toscana si producevano 200 mila tonnellate di pomodoro fresco, oggi siamo a 120 mila: molti agricoltori non hanno neppure piantato perché non hanno l’acqua necessaria ad irrigare. Sono anni che si parla di questa crisi, ma le istituzioni sono in ritardo. Non chiediamo aiuti per l’industria, ma non possiamo essere noi a sostenere il sistema dell’agricoltura regionale: abbiamo alzato il prezzo della materia prima, ma a noi oggi la grande distribuzione riconosce lo stesso prezzo del 2006. In questo modo i margini si assottigliano e i bilanci delle aziende vanno gambe all’aria. Chiediamo che siano le istituzioni a sostenere l’agricoltura. Asa Spa (il soggetto gestore delle acque per la zona di Livorno, ndr), il Consorzio di bonifica, il Comune di Campiglia e la Regione devono realizzare velocemente le opere che servono per garantire l’irrigazione dei terreni: le autorizzazioni sono state concesse, ma i lavori non sono partiti. Adesso dicono che dovrebbero cominciare a novembre ed essere conclusi in aprile. Speriamo».

Altrimenti?

«Altrimenti ce ne andiamo. Siamo in Toscana dal 1975 e siamo cresciuti su questo territorio: il marchio Petti in cinque anni è passato da 20 a 60 milioni di euro di fatturato, con un incremento del 126 per cento, diventando il terzo brand in Europa dopo Cirio e Mutti. In questi cinque anni abbiamo investito 25 milioni di euro, diamo lavoro a duemila persone fra diretti e indotto. Stiamo crescendo moltissimo e vogliamo continuare a farlo, ma produrre in Toscana dà un margine di circa il 5 per cento, se fossimo in Emilia Romagna sarebbe dell’8, perché lì hanno risolto il problema della carenza idrica e riconoscono un prezzo più basso per la materia prima. Ripeto, non possiamo essere noi a farci carico di sostenere l’agricoltura. Servono i lavori per le infrastrutture idriche e servono i contratti di filiera che sono stati fatti soltanto per vino, olio e carne chianina».

O ci aiutate o ce ne andiamo: non è un ricatto?

«Non chiediamo aiuti per noi, ma per gli agricoltori. Le infrastrutture idriche servono a tutta l’agricoltura, non soltanto a chi coltiva pomodori. E non si può pensare che siano gli imprenditori a sostenere il sistema. Abbiamo già fatto la nostra parte e adesso ci aspettiamo interventi concreti che portino a riprendere la coltivazione di pomodoro da industria come accadeva 5 anni fa, quando potevamo contare sul doppio di materia prima rispetto ad oggi. Serve un contratto di filiera pluriennale e la Regione deve fornire gli strumenti necessari a garantirci l’approvvigionamento di una quantità adeguata di materia prima, per non mettere in crisi, alla lunga, la sopravvivenza dell’industria in questo territorio. Le aperture dell’assessore all’agricoltura Marco Remaschi sono positive, ma per dirci soddisfatti ci attendiamo azioni concrete già entro fine settembre per poter iniziare a programmare con serenità la campagna di lavorazione del prossimo anno».

È tutta colpa della Regione?

«Assolutamente no. Il problema della sostenibilità dell’industria del pomodoro in Italia è nato nel 2010, quando l’Unione Europea ha interrotto i finanziamenti al comparto. Siamo ancora il primo produttore europeo di pomodoro da industria, davanti a Spagna e Portogallo, ma meno competitivi perché questi Paesi beneficiano ancora dei sussidi. Una stortura che va corretta reintroducendoli: il ministro Gian Marco Centinaio ci sta lavorando. Speriamo in un esito positivo, altrimenti i pomodori faranno la fine della barbabietola da zucchero che in Italia è ormai estinta, con la conseguente chiusura di tutti gli zuccherifici».

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