Olimpiadi 2026, la "battaglia" delle candidature entra nel vivo
Diciamolo chiaro: i torinesi le Olimpiadi le vogliono. Con buona pace di chi ha fatto del “no a tutto” una bandiera. Le vogliono perché sono una cosa nostra, perché ci hanno tirato fuori dall’anonimato e dal grigiore della città fabbrica. Anzi, ci hanno permesso di galleggiare quando mamma Fiat sembrava andare a picco o comunque veleggiare verso altri lidi che non fossero Mirafiori. Ed è onestamente bello che un sindaco si faccia portavoce di un sentimento tanto comune, nonostante il controcanto che arriva dalla sua stessa maggioranza. Da chi a 12 anni dal 2006 queste cose ancora non le ha capite. O non le vuole capire. Ora, senza voler essere superficiale, sorvolo conti, bilanci e conticini. Mi permetto però sommessamente di suggerire un consiglio non richiesto: usiamo il buonsenso. Che poi significa evitare vergogne come le palazzine prima abbandonate poi occupate dell’ex Moi, o di lasciar marcire i trampolini del salto o la pista del bob. Questi sono gli esempi più lampanti per urlare allo spreco non appena si pronuncia la parola Olimpiadi, diventando l’alibi del “no” ad oltranza. Ma c’è forse un simbolo meno celebre ma altrettanto significativo a ricordarci ciò che non dovrà essere Torino 2026: il palazzo del Toroc lasciato lì, vuoto, desolato e senza un futuro. Nulla di particolarmente eclatante, per carità, ma quel mezzo grattacielo è un po’la rappresentazione dell’ignavia che diventa accettabile consuetudine. Facciamo le cose per bene, ridiamo smalto vero a ciò che già esiste, coinvolgiamo le periferie e cominciamo fin da ora a immaginare il domani di ciò che verrà costruito.
fossati@cronacaqui.it
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