sinistra di popolo

Letta continua: la scommessa dell’ex premier di andare oltre il Pd (e se stesso)

di Susanna Turco   21 settembre 2021

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Il segretario dem corre a Siena, punta sul voto nelle città per prendere forza dentro il partito e avvia il congresso ombra con le Agorà: il suo Ulivo 2.0, dove non manca nessuno. Tranne la sinistra di popolo. Anatomia di una rivoluzione da Ztl, cantuccini e lavanda

Senza simbolo del Pd e con la voglia di superarlo, «senza paracadute» ma con molti pronostici a favore, Enrico Letta combatte palmo a palmo per la vittoria del suo Pd alle prossime elezioni amministrative (e la sua personale, alle suppletive di Siena) tra chiostri medievali, squisite enoteche con vista, perfezioni rinascimentali, cespugli di lavanda tagliati di fresco, terrazze che si aprono sulla Val d’Orcia. Pare ci sia anche una chat interna per la lotta, dal titolo: «Letta continua».

Preciso obiettivo: dimostrare che lui è «radicalmente cambiato» e che questo, proprio questo, è il turno di prova del «nuovo bipolarismo» che è di fatto già fra noi e di un Pd che «deve liberarsi della percezione di essere radicato solo nelle ztl». Sembra contraddittorio? Poco plausibile? Pazienza. Come nella più radicata delle tradizioni lettiane, la lotta avviene così, senza sudore, temperatura, polvere e sangue, davanti a panorami esteticamente perfetti, un gelo che potrebbe uccidere ma con molti sorrisi, nulla di cui preoccuparsi, mi sto divertendo, tanti amici, tutto bene. La rivoluzione non è un pranzo di gala, ma forse comprende il dessert. Nel giardino del Belvedere di Pienza, sotto la quercia, per la presentazione del suo “Anima e Cacciavite” alla Biblioteca comunale, promossa dalle Acli guidate da Emiliano Manfredonia, già presidente a Pisa, sono state confezionate addirittura delle monoporzioni di cantuccini, da assaporare insieme col vin santo a fine dibattito.

Lotta dura e confezioni da tre biscotti in sacchetti trasparenti, su ciascuno la riproduzione in miniatura del manifesto della serata, tipo partecipazioni a un matrimonio. Proprio quello che si intende quando si parla di sinistra di popolo, a occhio. Né del resto, sempre a occhio, attorno a Letta, che fossero presentazioni o piazze, al nord come al sud si sono registrate frotte di curiosi, entusiasmi traboccanti agitati da genti diverse da quelle invitate, previste, convocate per via di un qualche legame con il partito, l’area, gli organizzatori, il suo protagonista. Più establishment che folla, più Acli che Case del popolo: Enrico Letta, insomma.Un politico che a questo punto potrebbe fregiarsi di una biografia da protagonista shakespeariano, se solo ne avesse il piglio. Ma niente. Cantuccini e sorrisi. Funzionerà?

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Mai trascinatore di folle, tenace ma capace di dire «iperskillati» e «tamquam non esset» nella stessa risposta, ricucitore ma memore del passato, Letta dopo essere stato brutalmente detronizzato da Renzi nel mai abbastanza dimenticato 2014 adesso tenta la rivincita più grossa di tutte. Dimostrare che può andare diversamente, da qui al 2023. Che può conquistare i voti uno a uno, adesso, lui che dopo quindici anni da parlamentare si fece presidente del Consiglio per volere dei Palazzi, senza passare dalla benedizione elettorale. Che può magari persino puntare a tornare a Palazzo Chigi, fare magari il candidato premier. Di certo, tra l’oggi e le prossime politiche, sta costruendo una strategia diversa, che passa dal voto di Milano, Napoli, Roma, Torino e Bologna del prossimo 3 e 4 ottobre, un voto chiamato a solidificare l’ipotesi dell’alleanza Pd-M5S e la sua propria segreteria, magari con la riconquista del Campidoglio, per la verità tutt’ora non scontata e che si ossificherà attraverso l’unica creatura originale che ha finora messo in campo, le Agorà. Obiettivo generale: far rinascere l’Ulivo dalle sue ceneri, in versione (non troppo) rinnovata e con un ruolo dei Cinque stelle che vorrebbe più somigliante a quello di seconda fila che hanno in una città come Bologna, che non quello preminente dei tempi del «Conte o morte».

Pare averlo capito benissimo Rosy Bindi, ex ministra dei governi Prodi e D’Alema, ex presidente del Pd, che prendendo il microfono, in una serata della campagna elettorale, lo dice chiaro e tondo: «Ho apprezzato che Enrico non si sia candidato con il simbolo del Pd. Voglio coglierci una strategia: quella di andare oltre la stessa formazione politica della quale è segretario; e quindi costruire un percorso politico più ampio, del quale c’è un estremo bisogno.Gli errori del passato possono essere superati se si ricostruisce un campo largo del centrosinistra».

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Speranza esplicita: e del resto agli «errori del passato» si potrebbe dare un nome e un cognome. Così come all’ascia «furba» con cui Enrico Letta ha concluso la festa dell’Unità, domenica 12 a Bologna, citando un proverbio turco: «Gli alberi votarono ancora per l’ascia, perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro, solo perché aveva il manico di legno. Ma questa volta non andrà così».

Cresceranno Ulivi 2.0, gli alberi voteranno per se stessi. L’ascia non prenderà una preferenza. E tutto, in quell’ottica, va costruito per fare la differenza: a partire dal seggio delle suppletive. Con l’esclusione dei mesi di reggenza di Maurizio Martina, è in effetti dal 2013, prima proclamazione di Matteo Renzi alla guida del Pd che il partito non ha un segretario seduto in Parlamento. Questo spiega la determinazione con la quale Letta ha scelto la candidatura a Siena, nonostante le difficoltà e incertezze annesse, a partire dall’ombra pesante della (ora posposta) acquisizione dell’Mps da parte di Unicredit – solo in Toscana sarebbero a rischio 2500 posti, secondo la Cgil – e al netto della considerazione, forse poco elegante ma molto concreta, che si fa sia nel Pd e che fuori (cioè: Letta si è dimesso da Sciences Po a marzo, non ha uno stipendio da segretario ma ha tre giovani collaboratori che si è portato da Parigi, che non può far assumere al Pd, dove tutti i dipendenti sono in cassa integrazione).


L’ingresso in Parlamento è solo il primo passo, per entrare nel futuro. Il cosa fare dopo, e come farlo, Letta lo racconta bene quando rievoca le sue lezioni a Parigi, quando si trattava di far simulare agli studenti i negoziati internazionali: «Cambiavo i dati del problema, in corso d’opera, era interessante vedere le reazioni. Americani e cinesi, ad esempio, si arrabbiavano, dicevano: non è corretto. Veniva da dirgli: è la vita che non è corretta, no? Loro comunque si fermavano, di fronte al cambio improvviso del problema non riuscivano ad andare avanti. Se nel team c’era un italiano, invece, saltava fuori la soluzione. Perché noi siamo così: sappiamo affrontare l’imprevisto. Un imprenditore una volta mi raccontò che assumeva l’italiano proprio nel momento in cui sorgeva un problema nuovo: poi, una volta tornato alla normalità, lo mandava via». È anche la sua storia. Letta è stato chiamato per due volte, nel momento del bisogno: la prima, quando si trattava di formare il governo nel mezzo dello stallo dell’aprile 2013. La seconda sei mesi fa, a marzo, quando il Pd si è trovato nella crisi più nera a seguito delle improvvise e polemiche dimissioni di Nicola Zingaretti. Stavolta non ha alcuna intenzione di farsi cacciare, di nuovo. Come va dicendo, è «radicalmente cambiato», appunto.

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Ecco perché sotto l’ombrello di un percorso che politicamente passa per l’inclusione di tutto e di tutti, per la conciliazione dell’inconciliabile (dalla sinistra di Nicola Fratoianni a Matteo Renzi passando per il grillismo nuovo di Giuseppe Conte), Letta in questi sei mesi ha già posto le basi per avviare in modo strisciante un dibattito congressuale, prima che gli altri pezzi del partito utilizzino lui stesso come vivente terreno da riporto su cui costruire il prossimo congresso (già si parla degli aspiranti candidati alternativi, del resto: da Stefano Bonaccini in giù). Programma e posizionamenti Letta li ha infusi nella costruzione, anzitutto, delle Agorà, le mini assemblee dove almeno nelle intenzioni prenderà vita una parte del nuovo programma dem. Guarda caso, lo stesso nome che il tessitore di mille partite romane Goffredo Bettini aveva dato (prima di cederlo per fair play) alla sua corrente-non-corrente, battezzata proprio in primavera, con anche la partecipazione di Giuseppe Conte: l’ Avvocato del Popolo l’ha ricordato pochi giorni fa nel suo intervento durante la festa dell’Unità a Bologna, facendo un tutt’uno delle Agorà del segretario e di quelle di Bettini.


Per capire quanto ampio sia il fronte che Letta vuol mettere insieme nel suo nuovo fronte, disarticolando gli assetti attuali, basta del resto guardare i nomi dell’Osservatorio degli indipendenti delle Agorà, una mini pattuglia che copre di fatto qualsiasi tipo di variazione della sinistra non strettamente partitica: i laici del rigore sono rappresentati da Carlo Cottarelli, gli intellettuali giustizialisti dallo scrittore Gianrico Carofiglio, i cattolici da Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, il mondo del lavoro dall’ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan, i verdi europei da Monica Frassoni, e il fronte diritti (non solo Lgbtqi+) da Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia-Romagna. Insomma tutte le bande della sinistra di sempre, nessuno escluso. Come ai tempi dell’Ulivo prodiano.

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Sul quanto voglia disarticolare tutto, bisogna invece osservare con attenzione la divaricazione che si è prodotta qualche giorno fa, quando Goffredo Bettini si è proclamato favorevole alla elezione di Mario Draghi al Quirinale, e quindi alle elezioni anticipate, ed Enrico Letta si è precipitato nella posizione opposta. Una differenza attraverso la quale è affiorato un contrasto interno le cui origini, secondo alcuni, risalgono già a marzo con la candidatura, voluta da Bettini, di Roberto Gualtieri a Roma. C’è chi la chiama «il primo sgarbo fatto a Letta», che avrebbe voluto a tutti i costi in campo Zingaretti: non a caso Roma è adesso uno dei garbugli più difficili da sciogliere, nel rapporto con i Cinque stelle – con Virginia Raggi che corre contro il Pd (e viceversa). Diverso è, al di là dei titoli, del resto anche il rapporto che Letta vuol avere coi grillini. Organico sì: tuttavia Conte stesso appare almeno nelle intenzioni declassato, rispetto alla posizione di «punto di riferimento del centrosinistra» in cui stava ai tempi di Zingaretti. Adesso è, semmai, punto di riferimento della sinistra di Articolo1-Mdp, a giudicare anche dalle polemiche che si fanno, da sinistra, a una supposta mancata reciprocità di sostegno da parte del Pd a candidati grillini. Arrivato con un campo da gioco già mezzo disegnato, Letta pare in effetti aver accettato l’esistente, senza però metterci l’acceleratore. Ecco perché, adesso, parla però di «nuovo bipolarismo», che supera lo stallo tripolare sorto nel 2013 proprio con il trionfo dei Cinque stelle. Una stagione che mostra di considerare passata: gli anni in cui era stato «buttato fuori dalla politica». È stata «una fortuna», aggiunge oggi, giurando che ora è tutto diverso: ma chissà se è una promessa, o un boomerang.