Firenze

C'è vita a Kabul, parola di regista

Il 2 aprile alla Compagnia apre la decima edizione della rassegna Middle East now con il film 'Kabul city in the wind' del regista afghano Aboozar Amini, presente in sala. Il film fa parte di un focus dedicato ai registi emergenti mediorientali curato da Sigal Yehuda

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"Kabul convive da così tanto tempo con la morte che non ci fai più caso. La gente si alza la mattina con il rumore degli elicotteri militari, le colline si riempiono di cimiteri, e il resto del mondo conosce solo il numero dei morti che aumenta. Ma i vivi come stanno?" . A forza di sentire attorno a sè solo odio e morte il regista afghano Aboozar Amini - che è nato a Bamiyan, dove la furia iconoclasta dei talebani ha distrutto i Buddha millenari - adesso va in cerca solo di amore e vita. Per trovarli è andato a Kabul, "una città dove sono attivi undici paesi esteri con il loro esercito e più di ventuno gruppi terroristici, una città dove il vento suona come un lutto per i morti e la polvere odora di sangue".

Qui ha seguito da vicino con la sua telecamera di giovane film maker la vita di tre persone come tante, due bambini cresciuti troppo in fretta e l'autista di un autobus. Le loro storie, fatte di semplici aspirazioni e di speranza nel futuro, si intrecciano in Kabul, city in the wind, il film vincitore del premio speciale della giuria come miglior opera prima al festival IDFA di Amsterdam, che il 2 aprile apre al cinema La Compagnia (via Cavour 50r, dalle ore 21, replica giovedì alle 18,30 allo Stensen) il Middle east now, rassegna di cinema mediorientale che proseguirà fino al 7 aprile tra proiezioni, masterclass, spettacoli, mostre.

Aboozar Amini, presente in sala alla proiezione, voleva raccontare una Kabul diversa da quella che si vede nei tg: "Sentiamo parlare così tanto della Nato in Afghanistan che siamo ormai indifferenti rispetto alla sorte dei civili afgani. Allora ho cercato un'altra angolazione, che fosse più vicina al popolo. Sono stato quindici volte a Kabul negli ultimi tre anni e ogni volta ci sono stati due o tre attentati suicidi. Purtroppo ho anche perso alcuni amici in quelle occasioni. Ma incredibilmente la sfida più difficile di questo film è stata convincere le persone ad essere se stesse. Le persone sono abituate alle telecamere dei giornalisti e delle ong, che però sono interessate soprattutto a raccontare al mondo il lato più miserabile della loro vita. Ciò che io ero più interessato a vedere invece, erano i loro veri sogni, non importa quanto piccoli possano essere: per esempio riparare una vecchia radio rotta, se questo è il loro modo di ascoltare la musica".

Un ritratto di un'umanità con cui solidarizzare: "Tutto quello che spero è che il pubblico veda le persone che vivono in Afghanistan nella loro umanità. Persone che provano amore, gioia, che hanno sogni, dispiaceri, famiglie fatte di genitori,  bambini. E che proprio come tutti gli altri esseri umani del nostro pianeta, cercano di condurre una vita decente e prendersi cura delle loro famiglie. Anche loro sono aperti al progresso e non desiderano altro che stabilità e sicurezza per vivere".

Kabul, city in the wind fa parte della sezione del festival Focus emerging filmakers from the Middle East & North Africa , che offre una selezione di documentari curata da Sigal Yehuda, già direttrice del Greenhouse Film Center con cui il Middle East collabora da anni. Storie dirette da registi emergenti che tentano di rappresentare la lotta per la giustizia e la libertà nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa: "Sono soprattutto donne filmaker provenienti da Afghanistan, Iran, Palestina e Turchia che ci raccontano di donne forti - spiega la curatrice - che sono di ispirazione per combattere, in modi molto diversi, l'oppressione nelle loro società".

Dall’Iran arriva il documentario work in progress Radiography of a Family (2019) di Firouzeh Khosrovani (6 aprile, ore 18), in cui un uomo laico costringe la moglie religiosa a togliersi l'hijab, un diverso tipo di oppressionerispetto a quella a cui siamo abituati, ma di cui sono sempre le donne a soffrirne. Dall'Afghanistan A thousand girls like me (2018) di Sahra Mosawi-Mani (6 aprile, ore 16,30), documentario in anteprima italiana in cui vediamo una giovane donna che porta di fronte alla giustizia suo padre, che l'ha violentata per 13 anni. In Mussolini's Sister (5 aprile, ore 18,30) una regista palestinese documenta le vicende vissute dalla nonna che ha subito l'oppressione degli uomini e l'occupazione israeliana.

Heads and Tales di Aylin Kuryel and Firat Yucel (6 aprile, ore 18,30), dalla Turchia, racconta del sorprendente commercio di capelli tra Turchia e Israele e di come le donne ebree ortodosse coprano le loro teste con le parrucche di capelli che una volta appartenevano a donne in Anatolia. "I registi dell'area Mediorientale si trovano di fronte a questioni cruciali, dice Sigal Yehuda: come realizzare film su temi attuali e delicatissimi, e al tempo stesso conservare la sicurezza personale.Questi cineasti ci sfidano a guardare con attenzione ai nostri pregiudizi, ci fanno guardare le complessità delle nostre società da una prospettiva genuina".