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L’Iraq dopo le elezioni curde, tra incertezze e tensioni etniche

Di Giovanni Parigi
iraq

In una sola settimana, in Iraq si sono tenute le elezioni regionali curde, è stato eletto un presidente della repubblica, nominato un primo ministro in pectore e, infine, ottenuto il primo premio Nobel della storia del paese. Si tratta certamente di ottime notizie, anche se in realtà più che passi avanti verso un futuro radioso, si tratta di passi insicuri in un buio pericoloso.

Infatti, con la caduta dello Stato islamico e le elezioni nazionali dello scorso maggio, si è aperto un nuovo capitolo della storia del paese; però, il destino dell’Iraq resta avvolto da una densa nube di incertezza dove vagolano fantasmi di scontri etnici, l’incubo del Da‘esh, lo spettro di scontri intestini sciiti e l’allucinazione di una guerra tra Iran e Stati Uniti.

A dire il vero, a sbloccare uno stallo politico che durava da mesi è stato grand’ayatollah ‘Ali Sistani, ancora una volta un autentico faro per la salvezza del paese. È bastato indicasse come non gradito alla carica di primo ministro qualunque “politico che sia stato al potere in passato” per segare le gambe a quelli che erano i principali contendenti in lizza per la premiership, ovvero al-‘Abadi, su cui puntavano gli americani, e al-Maliki e al-‘Amiri, su cui puntavano gli iraniani. Dunque, lo spiraglio di luce dell’anziano religioso ha aperto la strada alla nomina di Adil ‘abdul-Mahdi, appartenente al partito sciita del Consiglio Islamico Supremo d’Iraq, ma di fatto considerato un indipendente. Al-Mahdi, ex ministro del petrolio, è stato accettato dagli iraniani, ma probabilmente non convince del tutto gli americani.

A conferirgli l’incarico di formare un governo è stato il curdo Barham Salih, che due ore prima era stato eletto presidente dell’Iraq; peraltro, a rimarcare il clima di incertezza, è da evidenziare che l’elezione di Salih è avvenuta a seguito di un inedito braccio di ferro tra i due principali partiti curdi, che in passato erano sempre riusciti a concordare un unico candidato. In ogni caso, Salih sembra perfetto: ha ottimi legami sia con gli Usa che con l’Iran; inoltre è un ottimo conoscitore della politica curda, essendo stato primo ministro del governo regionale, oltre che di quella irachena, essendo stato vicepresidente.

Tornando ad al-Mahdi, avrà un mese per mettere insieme un governo. Senonché, proprio la sua nomina ha rimescolato le carte; infatti, la bocciatura di al-‘Abadi quale premier incaricato porterà verosimilmente ad una disgregazione della sua coalizione raccogliticcia, che però aveva ottenuto ben 42 seggi. I curdi, poi, non si sono ancora sbilanciati. Di fondo, per dare una stabilità al governo, al Mahdi dovrà trovare un punto d’incontro tra i due principali partiti sciiti, Fatah e Sayroun.

Il primo, guidato dal filo-iraniano al-‘Amiri con 48 seggi, appoggia al-Mahdi ben sapendo che il suo appoggio è determinante per il futuro governo e che quindi otterrà ministeri importanti. Al-Mahdi ha ottenuto anche l’appoggio di Sayroun. Infatti il mercuriale al-Sadr, religioso sciita vincitore delle elezioni con 54 seggi, ha invitato i suoi parlamentari a non accettare posizioni ministeriali “in modo da dare la premier più libertà nella formazione del governo”.

Infatti, il principale problema del premier in pectore sarà proprio quello di resistere alle pressioni dei partiti, insediando come ministri uomini più attenti alle riforme che necessita il paese, che agli interessi personali o di partito. E sono proprio questi interessi a pompare il sangue guasto di tensioni etniche e settarie, corruzione, disoccupazione e mancanza di servizi essenziali, che fa palpitare il cuore di tenebra iracheno.

L’Iraq non ha avuto la sua Primavera araba, ma ne ha tutte le cause, e tutti i sintomi, come rivolte e popolari e decine di migliaia di intossicati da acqua inquinata. Dunque il rischio è che il prossimo governo, più che ricucire i rapporti arabo-curdi e le ferite lasciate dal Da‘esh, si ritrovi ad affrontare rivolte di una popolazione disperata, che peraltro verrebbero sicuramente sfruttate dai medesimi politici che le hanno causate. Intanto il Nobel alla yazida Nadia Murad, più che un premio, è una speranza per l’Iraq intero.

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