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Fra Mosca e Bruxelles. La via socialista di Craxi nell’analisi di Pennisi

Bettino Craxi

Quaranta anni fa, vivevo a Washington dove ho passato più di quindici anni, lavorando alla Banca Mondiale. Il solo giornale italiano che leggevo regolarmente era Il Sole 24 Ore a cui collaboravo con uno pseudonimo; arrivava, via aereo, con alcuni giorni di ritardo. Non era allora facile trovare giornali e periodici italiani in vendita a Washington. Quasi per caso in una libreria (che vendeva anche stampa “straniera”) comprai L’Espresso del 28 agosto1978, che conteneva il saggio firmato da Bettino Craxi, ma in gran misura frutto di studi e riflessioni di Luciano Pellicani, Il Vangelo Socialista.

Da circa tre lustri venivo in Italia solo in vacanza con la famiglia, a casa a Washington non parlavo italiano ma francese (la lingua nativa di mia moglie), con colleghi ed amici. Utilizzavo un italiano, peraltro sempre più scadente, prevalentemente nella mia collaborazione con Il Sole 24 Ore. Mi colpì la ricchezza di cultura politica nel saggio e le strade che apriva alla sinistra italiana, scindendo nettamente liberalsocialismo da marxismo e comunismo. Non ebbi contezza del dibattito che aveva suscitato in Italia (e non solo) quel breve saggio e dei numerosi articoli a cui aveva dato spunto, raccolti alcuni mesi dopo nel volume di Claudio Accardi Pluralismo e Leninismo, Sugarco Edizioni, 1978. Ora il libro di Accardi è stato ripubblicato, con un saggio introduttivo di Nunziante Mastrolia, dalla Licosia Edizioni, con il titolo del saggio di Craxi del 1978 Il Vangelo Socialista. Il libro sarà oggetto di un dibattito alla Fondazione Basso a Roma il 24 ottobre alle 17. Al quarantennale di quel periodo di fermento culturale (e quindi di azione politica), Sergio Romano ha inteso dedicare un articolo su Il Corriere della Sera.

Nel settembre 1978, non potevo immaginare che dopo pochi anni sarei stato in Italia, dove, tra l’altro, avrei fatto parte della redazione di MondOperaio, il mensile del liberalsocialismo, che avrei collaborato con Craxi sia quando era presidente del Consiglio sia nella veste di incaricato del segretario generale delle Nazioni Unite per la soluzione dell’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo.

Non è questa la sede né per un Amarcord né per la celebrazione di una ricorrenza. Occorre, però, chiedersi cosa è rimasto di quel fervore culturale e di quella esperienza. Numerosi tra coloro che allora parteciparono attivamente al dibattito aperto dal saggio di Craxi non sono più tra noi. Quelli rimasti sono anziani ed in gran misura al di fuori della politica attiva. I partiti ed i movimenti di ispirazione liberalsocialista e socialdemocratica perdono consenso in tutta Europa (e non solo).

Ciò nonostante il dibattito di allora è stato utile e fruttuoso sia nel medio periodo (gli anni Ottanta e la prima parte degli anni Novanta) sia nel più lungo termine. Allora fu il motore culturale che contribuì sia a sconfiggere il terrorismo e tentativi di svolte autoritarie (quali quella della Loggia P2) ma soprattutto, con l’apporto di a quel tempo giovani economisti liberalsocialisti, a forgiare una politica economica che riuscì a contenere l’inflazione a due cifre (ereditata dalla seconda metà degli Anni Settanta) senza arrestare la crescita, ma anzi potenziandola.

Sotto quel che all’apparenza un cumulo di macerie ci sono elementi che hanno influenzato altri movimenti culturali e partiti e che saranno preziosi quando, passata questa confusa fase, ricomincerà a ricostruire l’Italia e l’Europa. Quasi in contemporanea con il volume sul dibattito nel 1978, è uscito per Mondadori il volume Uno sguardo sul mondo, che racchiude nuovi e inediti appunti e scritti di politica internazionale: sia nell’arco del suo impegno politico, sia negli anni ad Hammamet. È denso di pagine lucidissime ed attualissime, soprattutto sull’integrazione europea, alla quale Craxi non era affatto contrario, ma di cui vedeva già le contraddizioni. E la sua amara ironia (“Solo in Italia sono tutti europeisti purosangue, giovani, vecchi, donne e bambini, da Prodi a Berlusconi: non spiegano bene di cosa si tratta e si tratterà, ma sono egualmente europeisti al cento per cento”) mostra bene quanto avremmo avuto bisogno, negli ultimi anni, non di cori di voci bianche “euroliriche”, ma di una robusta visione eurocritica, eurorealistica, europragmatica.

Il sarcasmo di Craxi si fa feroce sulla “fanfara europeista”, tanto quanto la sua visione è nitida “sull’euro che non sarà un miracolo”. L’ex leader del Psi, tra il 1996 e il 1998, negli anni dell’esilio, ha il coraggio di parlare di una “Unione monetaria prematura, malaticcia”, che “non creerà alcun paesaggio fiorito”, ma “costerà posti di lavoro”. E aggiunge: “Bisogna discutere senza pregiudizi dei rischi dell’euro”. Per capirci, sono più o meno gli stessi anni in cui Romano Prodi sostiene invece che con la nuova moneta “lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se si stesse lavorando un giorno di più”.

Ogni capitolo di questa raccolta merita una lettura attenta, profonda, non di rado commovente. E c’è anche modo di indignarsi, insieme a Craxi, contro l’ipocrisia di comunisti ed ex comunisti italiani: rileggere le pagine dell’archivio Craxi sui rapporti tra Pci e Urss fa pensare ai molti sepolcri imbiancati, miracolosamente sfuggiti al giudizio della storia, servi italiani per decenni di un regime assassino e criminale, e non di rado transitati – successivamente, comodamente, a costo zero – a dare lezioni di principi occidentali, di modernità, e perfino di liberalis.

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