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Cherif Chekatt è un prodotto della nostra società. Parla Olivier Roy

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Il blitz della polizia francese che ha ucciso Cherif Chekatt, l’attentatore che ha trasformato in un inferno di morte un sereno pomeriggio fra i mercatini natalizi di Strasburgo, cala il sipario sull’ennesima caccia all’uomo che ha tormentato il sonno dell’Eliseo, ma lascia aperte troppe domande. Come è possibile che una Fiche S, un radicalizzato sotto sorveglianza della polizia, possa agire indisturbato? Cosa porta un giovane di 29 anni, figlio di immigrati algerini, ad abbracciare il jihad e cercare il martirio nel cuore dell’Europa? Olivier Roy ha trascorso una vita a cercare una risposta.

Sociologo francese di fama mondiale, Roy è stato consulente dell’Eliseo, dell’Osce e dell’Onu. La sua teoria dell’ “islamizzazione della radicalizzazione” ha fatto scuola, e ha diviso la comunità scientifica: è l’alienazione culturale della seconda generazione di immigrati in Europa che porta al jihad, dice Roy, è l’emarginazione sociale che si trasforma in odio e porta all’omicidio in nome dell’Islam. “Chekatt era un criminale braccato dalla polizia in cerca di un grande finale, lo ha trovato nel jihad – spiega il sociologo intervistato da Formiche.net – “era un prodotto della società moderna”.

Cosa ha in comune l’attentato di Strasburgo con quelli che hanno colpito l’Europa in questi ultimi anni?

Lo schema è lo stesso. Una persona con un piano non molto sofisticato attacca i civili in un luogo di grande valore simbolico, come il mercatino natalizio di Strasburgo o gli Champs-Élysées l’anno scorso. Anche l’identikit è ricorrente: Chekatt era un immigrato di seconda generazione, senza alcun particolare passato salafita, radicalizzato in prigione, aveva un lungo curriculum di violenze.

Una conferma della sua teoria sull’ “islamizzazione della radicalizzazione”. Perché la seconda generazione di immigrati in Francia è così sensibile al messaggio jihadista?

È un trend che prosegue da molti anni. Ormai in Francia esiste una terza generazione che però ancora non è stata coinvolta negli attentati. Non è un caso. La chiave per leggere lo spaesamento della seconda generazione di immigrati, per lo più proveniente dal Nord Africa, è la “de-culturalizzazione”: queste persone abbracciano una forma di religione che non ha nulla a che vedere con le tradizioni dei loro padri né tantomeno con le forme di religiosità moderne. Non conoscono né la lingua né i costumi dei Paesi d’origine. Giocano ai videogames, spesso fanno uso di droghe, escono nei locali notturni francesi: sono un prodotto della nostra società moderna.

È la società francese che ha fallito o sono loro che rifiutano di integrarsi?

Il fil rouge che lega questa generazione è la frustrazione. Si sentono marginalizzati dalla società francese, e questo mancato riconoscimento si trasforma in odio. Messi all’angolo, trovano nel jihad una via rapida per ottenere la fama, instillare paura nella società che ha voltato loro le spalle e divenire un riferimento per i loro simili.

Chekatt era una Fiche S, un radicalizzato sorvegliato dalla polizia. In Francia ce ne sono circa 5000. Come è possibile che riescano ad agire indisturbati?

È un problema legale di non facile soluzione. Le Fiche S non possono essere incriminate. Si tratta di persone sospettate di avere contatti con individui radicalizzati o di diffondere propaganda radicale sul web. Il caso di Cherif Chekatt è totalmente diverso: non era ricercato perché era un fondamentalista, ma perché era un criminale. Tutti i suoi complici nelle rapine erano finiti in carcere, lui era l’ultimo latitante. Per questo non credo che l’attacco di Strasburgo fosse pianificato.

Ci spieghi.

Quando ha scoperto di essere braccato, Chekatt ha preferito uscire allo scoperto con l’attacco al mercatino di Natale. Ha abbandonato la veste di piccolo e anonimo criminale per indossare quella del jihadista.

C’è una via giudiziaria per bloccare il processo di radicalizzazione prima che sia troppo tardi?

Spesso il percorso di radicalizzazione è successivo a quello criminale. Il profilo di Chekatt lo conferma, era stato in carcere due anni fa. Per arrestare questi radicalizzati le forze dell’ordine fanno prima a seguire la pista criminale: rapine, sequestri, nel caso di Chekatt anche tentati omicidi. Incriminarli per il reato di radicalizzazione è molto più difficile, questo forse spiega il ritardo legislativo in materia.

Perché questi terroristi si rifanno quasi sempre all’Islam?

Il primo motivo è semplice. I loro genitori sono di fede musulmana. Abbracciare il jihad è un modo per riempire di significato l’alienazione nei confronti della prima generazione, per urlare al mondo “siamo noi i veri musulmani, non voi”. Il secondo è più pragmatico. Se il tuo obiettivo è ottenere le prime pagine dei giornali non c’è nulla di meglio di un crimine in nome del jihad. Sono morte sei persone durante le manifestazioni dei gilet gialli in Francia, ma quasi nessuno ne ha parlato. I morti di Strasburgo, per ovvi motivi, hanno oscurato sulla stampa gli scontri di Parigi.

L’Isis ha rivendicato Chekatt come un suo combattente. Il network di Daesh è ancora attivo in Europa?

Non darei troppo peso a queste rivendicazioni, l’Isis non vede l’ora che qualcuno urli “Allah akbar” per poterlo reclamare come un suo soldato. Quanto agli attacchi, i fatti ci dimostrano che operazioni coordinate come quella del Bataclan sono sempre meno frequenti. Questa è al tempo stesso una buona e una cattiva notizia. Da una parte l’Isis ha capito di non aver bisogno di spendere uomini e soldi, quando in Europa c’è una “forza di riserva” di individui che possono essere radicalizzati in sole due settimane. Dall’altra negli ultimi due anni questi attacchi non solo sono diminuiti, ma sono sempre meno efficaci.

Ora che l’Isis ha perso terreno nel Levante si ripropone la minaccia dei foreign fighters europei. Torneranno a casa?

La maggior parte cercherà altre mete, sanno che se tornassero in Europa rischierebbero di essere arrestati. Inoltre quelli che torneranno difficilmente riusciranno ad essere attivi, perché non hanno più un network logistico né un posto dove nascondersi. Chi cederà alla tentazione di rivedere i parenti e gli amici lasciati a Parigi, Bruxelles, Stoccolma, sarà individuato e arrestato.

Finora in Italia non ci sono stati attentati. Come spiega questa anomalia?

Ci sono due spiegazioni. Anzitutto in Italia non esiste ancora una seconda generazione di immigrati dal Nord Africa. Sembra poi che il sistema carcerario italiano, a differenza di quello francese, non costituisca un terreno fertile per la radicalizzazione.

Le nostre carceri non godono certo di buona salute…

È un caso interessante, va approfondito. Una spiegazione possibile c’è: nelle prigioni italiane la religione non costituisce un tabù, in quelle francesi sì. Se un islamico si mette a pregare nelle carceri francesi viene subito sospettato di essere un fondamentalista. In Francia i cappellani cattolici e gli imam non hanno possibilità di entrare in contatto con i detenuti. Restano nei loro uffici, aspettando che sia il detenuto a chiedere di vederli. In questo modo il terreno religioso è stato lasciato nelle mani dei fondamentalisti.

Negli ultimi due anni i governi italiani hanno stretto i controlli sull’immigrazione dal Sud. Le rotte migratorie costituiscono un rischio per la radicalizzazione?

Queste ondate migratorie non hanno nulla a che vedere con gli attacchi terroristici. I nuovi migranti arrivano in Europa per restarci, trovare un lavoro e magari raggiungere qualche famigliare. I radicalizzati che abbiamo visto in azione sono il frutto dell’immigrazione della manodopera negli anni sessanta e settanta. Quella prima generazione di immigrati non aveva alcun progetto di rimanere in Europa. Arrivavano con un visto di lavoro e spesso con un contratto in mano. Non volevano diventare europei. Lavoravano per un po’, mettevano soldi da parte e sognavano di tornare un giorno in madrepatria. Molti non ci sono riusciti, per questo si sono sentiti smarriti e non hanno voluto o potuto integrarsi nella società.

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