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Il tesoriere, rapsodia dell’Italia dall’eterno ritorno

Quanto di quell’Italia raccontata circola ancora oggi nella politica, nella società, nei palazzi del potere e quanto resta ancora di quella Roma, che è protagonista anch’essa del romanzo? Molto direi. Probabilmente tutto. Pino Pisicchio legge “Il tesoriere”, romanzo d’esordio di Gianluca Calvosa

Mi sono preso un week end prima di mettere in pagina il retrogusto, buono come l’aroma di un Calvados Millésimé 1970 (un Guillaume de Normandie) che mi ha lasciato il romanzo d’esordio di Gianluca Calvosa, Il tesoriere, (Mondadori, 2021), una solida spy story di 400 pagine, piena di atmosfere e di scenografie che sembrano già guardare a una trasposizione cinematografica, con l’occhio attento alla calligrafica ricostruzione storica e il cuore sintonico con il battito nel cuore dell’Ideale.

Lemma quest’ultimo che ha la stessa radice dell’ideologia, parola svanita nell’iperuranio delle cose dismesse e che con Calvosa torna a garrire – con qualche stanchezza, va detto – nel colore un po’ vintage di una bandiera di battaglie antiquarie. Perché il plot di questo libro, che è già piaciuto alla critica, si ficca in una cornice che richiama alla mente “il sipario strappato” di Hitchcock, con quei colori decolorati della Berlino divisa in due, e Paul Newman imprigionato in un esasperante e perenne verdolino del lato Est. Quando la Merkel era poco più che un’allieva adolescente in quelle aule verde-pastello-comunista, nell’inconsapevole attesa del miracolo.

Solo che la storia ha come epicentro Roma e non Berlino e siamo in quel giro d’anni, dal ‘72 al ‘76, che segnarono profondamente la storia dell’Italia repubblicana. Gli anni del Pci oppositore che governava senza essere al governo ma in una originale coabitazione parlamentare, che proprio nel ‘76 trovò il suo suggello con l’elezione di Ingrao a presidente della Camera, e che sulle leggi che contavano imprimeva a fuoco il suo expedit. Erano gli anni del “consociativismo”, deprecato ed elogiato in misura eguale da quelli che sono venuti dopo. Erano gli anni di tutto: Brigate Rosse, Cia, Kgb, dello Ior di Marcinkus, della P2, dei tanti soldi sovietici al Pci, di Roma che registrava una densità di spioni per metro quadro che manco Beirut e Casablanca insieme nei loro giorni gloriosi.

In questo liquido amniotico in cui si versano fiotti di numerosi altri liquidi, spesso letali, Calvosa racconta la storia di un grigissimo funzionario del Partito, dal profilo sociologico pienamente incarnato dall’epopea piccolo-borghese del Pci di quel tempo, che dalla condizione-sottoscala del travet ( anche questo coi colori vintage del Fantozzi di quegli anni), viene cooptato dal nuovo Segretario Megagalattico del Partito, nel ruolo di tesoriere. Il ruolo, storicamente centrale nell’esperienza del Pci, affidato solitamente a parlamentari di piena fiducia (così da poter rispondere in pieno al segretario e da poter opporre l’immunità al rischio, sempre in agguato, di disavventure giudiziarie), passa ad Andrea Ferrante dopo la morte del vecchio tesoriere in modo per lui niente affatto rassicurante, tanto più perché la sua mission ha a che fare con i flussi di danaro che i sovietici continuano ad assicurare al Pci.

Questo è il prolegomeno di una narrazione che si fa appassionante per l’accuratezza della ricostruzione storica, per la cura dei dialoghi, per il gioco delle trasparenze e degli smascheramenti dei protagonisti dell’epoca, per la costruzione dell’intreccio e anche per la capacità di documentare lo spirito del tempo, di quel tempo, con l’aria di chi sta raccontando un film. Di più non conviene dire: siamo in presenza di una spy story, perbacco, mica si può raccontare tutto!?

Sorge, piuttosto, spontanea una domanda: quanto di quell’Italia raccontata da Calvosa circola ancora oggi nella politica, nella società, nei palazzi del potere e quanto resta ancora di quella Roma, che è protagonista anch’essa del romanzo? Molto direi. Probabilmente tutto. E non solo perché, come ha osservato qualcuno, la Guerra Fredda è tornata, con la Cina al posto dell’Unione Sovietica (solo che al posto dell’America non si capisce bene chi ci sia…) e Roma ancora al centro dei transiti dello spionaggio internazionale, perché il suo destino di “limes”, di soglia di un mondo e dell’altro, che ne connotò la storia al tempo della guerra fredda non è mutato con la caduta del Muro: oggi l’Italia è indubbiamente un crocevia di nuovi limes.

La ragione è un’altra e riguarda gli italiani, la classe dirigente e il popolo, tutti sempre uguali. Dall’Unità, a Giolitti, al dopoguerra, alla Prima Repubblica e a quelle che ne hanno fatto seguito. Italiani “brava gente” e “nuovi mostri”, tanto per restare nelle citazioni cinematografiche, che si tengono per mano e vanno a fare festa con Jep Gambardella sulla terrazza romana sublime e cafona, tra ministri , prelati, intellettuali, imbroglioni, cinematografari, stelline pronte a dare tutto e vecchi lubrichi pronti a prendere tutto. Al ritmo travolgente di un remix di Raffaella Carrà feat Bob Sinclair: “A far l’amore comincia tu”. Da fare rigorosamente in modalità trenino.

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