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Intervista al vescovo di Reggio Emilia: «Chi è in mare va condotto a un porto. Noi europei, diventati cinici e violenti»

Stefano Scansani
Intervista al vescovo di Reggio Emilia: «Chi è in mare va condotto a un porto. Noi europei, diventati cinici e violenti»

Autore con Mattia Ferraresi del testo “Oltre la Paura”, il capo della Chiesa reggiana passa in rassegna il tempo inquieto. Il volume è stato presentato martedì scorso nell’aula magna dell’Università da Romano Prodi e Stefano Zamagni

28 gennaio 2019
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REGGIO EMILIA. Camisasca vescovo, Camisasca scrittore. Le due missioni del capo della Chiesa di Reggio Emilia e Guastalla corrono parallele, e diventano comunicazione, sollecitazione, riflessione. Una conferma è scaturita martedì scorso quando il monsignore ha presentato nell’aula magna dell’Università di via Allegri il suo ultimo libro, scritto con il giornalista del Foglio Mattia Ferraresi: “Oltre la Paura. Lettere sul nostro presente inquieto”. Si tratta di un epistolario sul tempo nostro, sulle maniere di relazionarci oggi. Al dibattito sono intervenuti anche Romano Prodi e Stefano Zamagni. Abbiamo posto alcune domande al vescovo allargando il fronte del libro e della scrittura ai temi caldi della cronaca di queste ore.

“Oltre la Paura”. Il titolo del libro che ha scritto a quattro mani con Mattia Ferraresi. Ha un carattere doppio: prende atto della depressione dei nostri tempi (la paura) ma afferma speranza (l’oltre). Qual è oggi il male maggiore?

«Penso sia proprio la perdita della speranza, che deriva da una decostruzione dell’uomo. Spesso l’uomo oggi vive come sradicato, non sa da dove viene, chi lo ha generato e dove va, qual è il suo destino, qual è il peso delle sue azioni. Questa decostruzione dell’identità porta a una debolezza di relazioni e alla difficoltà a guardare al futuro con ragionevole fiducia».

Da che cosa deriva l’irrequietezza nei rapporti umani, sociali?

«Dalla paura di non essere stati amati e quindi di non essere in grado di amare. L’amore infatti, ma anche l’accoglienza e il perdono, nascono in noi come riflesso, rifrazione dell’esperienza dell’amore ricevuto. Il dubbio a questo riguardo ci può rendere cattivi, reattivi, anche ingiusti. Penso che stia qui, tra l’altro, l’origine del bullismo e di tanta violenza intra-famigliare, fra cui ciò che oggi viene chiamato femminicidio».

Quanta responsabilità ha la politica nelle nevrosi delle relazioni, nella scarsità di fiducia nelle istituzioni?

«Penso molta. C’è un senso di responsabilità molto povero e un egotismo molto accentuato nella classe politica. Naturalmente in democrazia alla fine siamo noi ad eleggere i nostri rappresentanti. E quindi la responsabilità più grave è di ciascuno di noi. Anche i mezzi di comunicazione hanno la loro parte, quando non aiutano le persone a formarsi un’immagine realistica delle cose, ma attraverso le fake news influenzano l’opinione pubblica a partire da elementi che non corrispondono alla verità».

Non ritiene che il motto “accogliamoli”, molto utilizzato da Papa Bergoglio, sia alla fin fine la controffensiva al “respingiamoli”?

«Questa è una caricatura del Papa. In realtà egli ha sempre parlato di prudenza e sempre mette in luce tutti i fattori in gioco: accoglienza, sicurezza, integrazione.

Altro naturalmente è il discorso su chi è in mare, per qualunque ragione si trovi in quella situazione, e che deve assolutamente essere salvato e condotto a un porto. Le responsabilità dell’Italia, non solo della classe politica attuale, sono molto pesanti. Tutti noi europei siamo diventati cinici e violenti».

In una sua recente nota sui naufragi nel Mediterraneo ha rappresentato la carità come una roccia. Dunque un qualcosa di incrollabile, solido, certo. Ma qual è lo stato di salute di questa virtù teologale?

«La carità è innanzitutto l’umanità di Cristo. È a lui che dobbiamo guardare per imparare come trattare noi stessi e gli altri. Essa è un cantiere sempre aperto. Dobbiamo invocare Dio che ci conceda di partecipare alla sua carità e di essere così luce e speranza per chi vive accanto a noi e anche lontano da noi».

Anche la pietra su cui è fondata la Chiesa si trova in un mare in tempesta…

«Gregorio Magno, un papa del VI secolo, descriveva la Chiesa come una nave nella tempesta, di cui lui si trovava ad essere il timoniere. La Chiesa è sempre nella tempesta, originata dai suoi nemici che sono fuori e dentro di lei. Essa è il mondo che si converte a Cristo, e perciò necessariamente vive tra la pace che viene dal suo Signore e le necessità della battaglia, causata dal demonio. La liturgia dice che la Chiesa vive continuamente tra le consolazioni del suo Signore e i pericoli che vengono dal mondo che la circonda».

I relatori alla presentazione del libro hanno detto di nutrire fiducia nei giovani d’oggi, meno negli adulti. Lei come la vede?

«Vedo una grande difficoltà di molti adulti ad essere autorevoli senza essere autoritari. Dovremmo fermarci ad un’analisi del post Sessantotto, che qui non è possibile. Naturalmente non è così per tutti. L’autorevolezza di un genitore è quasi un istinto naturale che ha molto a che fare con l’amore e la fiducia e la creatività. Allo stesso modo, non sono ingenuamente ottimista nei confronti dei giovani. Sono seriamente positivo verso questa generazione, nella quale trovo una grande attesa senza preclusioni ideologiche. Ma in essa vedo, accanto a disorientamento, esperienze precoci e brucianti, sentimenti spesso prevalenti sul pensiero. Tocca a noi aiutare i giovani accompagnandoli con una mano non assente, ma neppure invadente. È il rischio della libertà e dell’educazione».

Dal suo punto di vista immagino che una risposta alla paura e all’inquietudine sia la ri-cristianizzazione della nostra società. Ma in che modo, ma quando?

«Non vedo altro metodo che quello vissuto da Gesù. Nella sua umanità traluceva la bellezza del divino, dell’eterno. Terreno ed eterno sono impastati. Così deve essere anche per noi. Nella nostra umanità, così povera e piena di peccati, traluce, quando siamo afferrati da Gesù, un poco della sua bellezza e del suo fascino».