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Ma stavolta la sfida del Pd non è routine

CARTA BIANCA

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A fatica e con grande lentezza il congresso del Pd sembra essersi messo in moto. Piano, piano. Quasi a sette mesi dall’epocale sconfitta di marzo non si avvertisse l’urgenza di ripensare le politiche e le pratiche dell’ultimo decennio e il bisogno di reagire davanti all’ondata gialloverde (nera). Come se la perdita del governo, a livello nazionale e in tanti contesti locali, avesse prodotto un’implosione delle energie superstiti, uno spaesamento totale con cui è troppo lacerante psicologicamente e culturalmente fare davvero i conti. Sembrano così prevalere la rimozione e il gioco stuccoso del comporsi e scomporsi delle componenti. Anche se il Titanic sta affondando. Con un’assenza di tensione e di voglia di rilancio che coincide più con lo sguardo all’indietro, il “far passare la nottata”, che con il misurarsi davvero con lo svuotamento del consenso e la brusca caduta nella marginalità politica. Come non si fosse imparata nessuna lezione. Eppure questo congresso ha i tratti dell’effettiva drammaticità. A partire dall’ ostilità solida e diffusa verso il Pd di larga parte degli italiani. Una rottura con la società del tutto unica nella nostra vita repubblicana e che ha reso evidente sia la crisi irreversibile di molti dei paradigmi fondativi sia l’inadeguatezza della classe dirigente post- comunista e post-democristiana. L’ assunzione della neutralità della globalizzazione, della politica come tecnica di pochi, il pervicace sostegno all’austerità nonostante la perdita della rappresentanza tradizionale e l’impoverimento materiale e culturale del paese impongono una rielaborazione severa che implica il rovesciamento di modelli e di comportamenti perseguiti con convinzione e non raramente con arroganza. Un confronto politico vero. Senza riesumare un passato più o meno lontano e consolatorio ma piuttosto esplorando nuovi orizzonti all’interno della democrazia in crisi. Ma ad oggi non sembra questa la direzione di marcia. Certo è cosa difficile da fare. In particolare per un partito più abituato alle diatribe interne che a confrontarsi con la realtà, tanto mutato nella sua stessa antropologia e composizione. E dove il renzismo è stato il prodotto di una storia ben più lunga e non la rottura con quella storia. Anche per questo l’ex segretario conserva, pur sfidando il “cupio dissolvi”, una sostanziale egemonia che non trova opposizione se non, appunto, nell’aspirazione a chiudere un capitolo, nella frettolosa costruzione di un fronte genericamente antirenziano. Ma senza pensieri lunghi sul mondo globale, il mutamento sociale, le radici dei populismi. La discussione rischia di concentrarsi, tanto per cambiare, solo sull’immigrazione, nella perdente dicotomia accoglienza- chiusura più che su come costruire davvero integrazione, o sull’ Europa che si dice di voler trasformare ma senza mettere in campo concrete politiche diverse. Di rimanere cioè tutta dentro un ceto di partito o poco più. Magari individuandone la responsabilità nell’incomprensione degli italiani. Una scelta probabilmente esiziale per la stessa sopravvivenza del Pd. E non indifferente neanche per chi non è del Pd o, da sinistra, non vota Pd o non vota proprio. Perché la decisione di ricompattarsi senza sciogliere le tante ambiguità o peggio confermare il percorso seguito in questi anni porterebbe a un ulteriore smarrimento elettorale e una più forte delegittimazione di un’opposizione già oggi troppo silente e impotente davanti alle aspirazioni neoautoritarie. Non è insignificante per chi ancora crede in una sinistra italiana se il Pd deciderà e riuscirà a ricollocarsi. Anche per questo il congresso del Pd non riguarda solo il Pd. E la sua sparizione o il definitivo approdo al centro non contribuiranno di per sè a rimettere in campo una nuova sinistra. Ma che il Pd riesca a ripensarsi è allo stesso tempo cosa assai dubbia. Quasi un paradosso. Per altro largamente prodotto dallo stesso Pd. Vale anche per Genova. Dove a oltre un anno dalla perdita dell’amministrazione mancano ancora sia una rilettura pubblica degli errori compiuti sia un progetto diverso e credibile per la città. Anche il crollo del ponte Morandi, al di là della doverosa ricerca di unità nell’ emergenza, non ha portato a rivendicare un ridisegno di Genova a partire dalle tante periferie, da una meno squilibrata relazione tra città e porto, dalle diseguaglianze sociali, dalla fuga dei giovani. Dal lavoro. Il silenzio su Genova diventa paradigmatico della difficoltà ad assumere una nuova pelle. Forse anche, per tanti, delle volontà di farlo. Di tentare un rinnovamento che non è solo e tanto generazionale ma di idee, persone, sguardo sociale, linguaggi. O di misurarsi con le nuove esperienze civiche e solidali, anche diversamente collocate su tante questioni. Perché già suppliscono ai vuoti della politica e ne disegnano un futuro civico. Ecco, se come scrive “la Repubblica”, nel Pd genovese in molti manifestano, più o meno improvvisamente, tentazioni antirenziane forse hanno davanti un’impresa meno di routine che marcare i confini interni. I temi non mancano.