Genova

Il neofascismo, l'ultima patologia: quei segnali da non sottovalutare

CARTA BIANCA

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Ma davvero il neofascismo sta diventando un’altra patologia di questo nostro disgraziato paese? "Repubblica" ne segnala da tempo il rischio, anche a Genova. La Grecia ma anche l’Ungheria, la Polonia, l’Ucraina e persino la Finlandia dimostrano come l’estremismo nero non sia più uno dei fantasmi del novecento ma un fenomeno politico di evidente pericolosità sociale. Non misurabile solo dai risultati elettorali. Anzi, assumere come chiave di lettura il numero di voti raccolti è in qualche misura distorsivo e può portare a giudizi di irrilevanza che si rivelano poi, nei fatti, superficiali o giustificatori. Così come il ridurre tutto a folklore ideologico, ignoranza della storia, pagliacciata nostalgica è, non di rado, un modo per non prenderne davvero le distanze, una forma di sottovalutazione che è al contempo un’ambigua accettazione. Di certo, il neofascismo italiano non è più quello del dopoguerra né degli anni settanta. Oscillante tra il doppiopetto e le trame eversive, tra la seduzione del sottogoverno e la violenza di piazza. In questo senso la seconda repubblica segna un sostanziale spartiacque. La pregiudiziale antifascista si trasforma in un generico a- fascismo, le formazioni politiche sono nella loro maggioranza prive di ogni legame storico con la stagione resistenziale. Il berlusconismo è insieme legittimazione e pieno coinvolgimento politico della destra e messa in moto di un processo di riscrittura della storia nazionale che di fatto schiaccia l’antifascismo dentro il totalitarismo comunista e ne delegittima il carattere fondante le istituzioni democratiche. Sono i connotati di una " nuova Italia" fiera di essere modernamente post ideologica e di non dover più dipendere da un passato che si ostinava a non passare. In molti contribuirono a rappresentare l’antifascismo come un ferrovecchio e qualcosa di antiquariale. Aiutò non poco questo risultato anche l’inadeguatezza della risposta delle culture dell’antifascismo, la riduzione in troppi casi della memoria a retorica autoreferenziale, un racconto pubblico chiuso in rituali sempre più svuotati e connotati generazionalmente. E’ quindi da oltre venti anni che, con diversa intensità e vari gradi di successo, si aggira nel paese una sorta di riabilitazione/ de- fascistizzazione del fascismo, di cui si rimarcano come unici veri errori l’ingresso in guerra e le leggi razziali. Il processo di amnesia collettiva è ormai sedimentato nel tempo. Ed è in questa onda lunga s-valoriale che si ricolloca l’estrema destra di oggi. Che vive un inedito e più forte sdoganamento. Perché il neofascismo non è che la componente più ideologica e radicale di uno schieramento populista e neo- nazionalista che va da Trump a Salvini. Non è qualcosa che sta "fuori" ma che sta "dentro". E questo non vuol dire che i sovranisti siano neofascisti. Ma che larga parte delle loro opzioni politiche, dalla xenofobia anti- immigrati, all’omofobia, alla messa in discussione dei diritti delle donne, alla stessa demagogia sociale, sono di fatto omogenee con le parole d’ordine neofasciste. Così è comune la svalutazione della democrazia rappresentativa, l’appello plebiscitario al " popolo", l’irrisione degli atteggiamenti solidali. O la costruzione del nemico, il doversi difendere "in quanto italiani" derubati nei diritti, invasi dagli stranieri e minacciati dalla sostituzione etnica. Da qui, le non rare sovrapposizioni di personale politico, come ha bene dimostrato Marco Preve su questo giornale, e la difficoltà a disconoscerli e ad allontanarli, ad evitare ammiccamenti e contiguità. Per altro, il neofascismo non ha nostalgia del fez e dell’orbace. Si muove al suono del rock, apre centri sociali, occupa case, produce controcultura giovanile. E questo raccogliere disagio ed essere anti- sistema è, ben più di quello elettorale, il suo terreno di crescita. E’ altamente probabile che in Italia, a differenza di altri paesi, non si sia ancora superato il livello di guardia. Ma è certo che le formazioni nere si sentono parte di una egemonia culturale, sempre meno vincolate dall’inibizione democratica e aspirano a giocare un ruolo nella crisi della nostra democrazia. Con un possibile innalzamento dei livelli di violenza che da verbale e virtuale scivola progressivamente nell’intimidazione fisica e nell’aggressione. Giustizieri in nome dell’odio sociale. Trovandone magari consensi, coperture, immunità. O generiche condanne che lasciano, appunto, il tempo che trovano. Anche per questo è necessario non rinunciare a chiedere coerenza antifascista alle istituzioni. Non è qualcosa che può dipendere dagli orientamenti politici delle maggioranze ma un dovere. La conferma dei valori che stanno alla base della nostra legalità repubblicana. Non è certo sufficiente. Perché c’è una sfida non banale per l’antifascismo che è quella di tornare a produrre empatia, mutare linguaggi, assumere la trasmissione della memoria come lezione civile, impegno, responsabilità per il presente. Essere espressione di un "patriottismo costituzionale" che connoti la dimensione, singola e collettiva della cittadinanza. Forse si potrebbe iniziare già con il prossimo 25 aprile. Che a Genova non potrà non essere in piazza.