«Un festival di jazz non può non prendere posizione», dice Adriano Pedini, direttore artistico di Fano Jazz by the Sea, introducendo il primo degli appuntamenti di «Gli echi della migrazione», una sezione che la rassegna propone per il terzo anno. Già, dovrebbe proprio essere doveroso, per festival intitolati ad una musica che affonda le sue radici in una tragica migrazione forzata dall’Africa, che si è sviluppata in un paese popolato di migranti, e a cui hanno dato un grande contributo, accanto alla minoranza afroamericana, comunità di immigrati come quella ebraica e italiana. Dovrebbe essere doveroso, ma non è da tutti. E il riferimento a questo tema è particolarmente gradito da una manifestazione che nella sua intestazione si richiama al mare, che oggi purtroppo sollecita associazioni non solo balneari.

Questo aspetto del suo cartellone Fano Jazz by the Sea lo porta, ad ingresso libero, nel tardo pomeriggio, nella Pinacoteca di San Domenico, centralissima chiesa sconsacrata, attirando l’attenzione di fanesi e villeggianti. Non tutti gli appuntamenti di «Gli echi delle migrazioni» sono direttamente legati agli esodi che abbiamo sotto gli occhi: il riferimento può essere alla multietnicità e alla diversità e mescolanza di culture musicali e repertori, come con il polistrumentista israeliano Amir Gwirtzman, che guarda al jazz come alla musica rom, al Medio oriente come ai nativi americani, o con Anima Mundi, due cori e strumentisti che spaziano dai canti popolari emiliani alla musica corale sudafricana (entrambi i set oggi giovedì 26, il secondo alla chiesa di San Pietro in Valle). Ma ad aprire la serie non è stato un musicista di professione, ma un giovane cantante e suonatore di oud anche palesemente emozionato ad esibirsi nel contesto del festival quanto orgoglioso di poter condividere la propria cultura con un florilegio di canzoni tradizionali e moderne: trentenne, Mustafa Aza è nato ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, è stato costretto con la sua famiglia a lasciare la sua terra, ha sperimentato i drammi di cui i viaggi dei migranti verso l’Europa sono costellati, e vive oggi nelle Marche come richiedente asilo.

Dopo giusto vent’anni, in cui ha peraltro potuto utilizzare cornici molto suggestive, nel 2017 Fano Jazz by the Sea ha ritrovato per i concerti principali la sua location ideale, la spaziosa e accogliente Rocca Malatestiana, che oltre al grande cortile (700 posti) dispone anche di uno spazio raccolto dove dopo il concerto clou della sera ci si può spostare per un’altra sezione del festival, dedicata a giovani emergenti del jazz italiano. Rassegna con all’attivo una lunga continuità (26esima edizione), Fano Jazz si fa apprezzare per il suo equilibrio, tanto nell’articolazione del programma (ai concerti si aggiungono fra l’altro presentazioni di libri, un campus musicale indirizzato ai bambini, e accanto alla Rocca funziona – fin dallo yoga & jazz alle sette di mattina – il «Jazz Village») quanto nell’assortimento delle proposte principali, che cerca di conciliare esigenze anche piuttosto diverse. Anche se con la prudenza dettata da tempi più difficili che in passato, Fano cerca di mantenersi fedele ad una tradizione di attenzione al jazz più avanzato: quest’anno con il sestetto di Vijay Iyer (sotto la recensione di Luigi Onori da Roma), per molti una scoperta, che ha suscitato molto entusiasmo.

Entusiasti anche gli aficionados di Stanley Clarke, che si diverte come un ragazzino a suonare la sua esuberante miscela di rock-jazz e funk. Successo anche per Brad Mehldau, sold out per Dee Dee Bridgewater, quasi esaurito per il quartetto di Fresu. Chiusura giovedì con Andy Sheppard e venerdì con Bill Frisell.