Nel 1908 un ignoto studente pietroburghese si recò in pellegrinaggio da Zinaida Gippius – poetessa simbolista dalla personalità sulfurea, animatrice di uno dei salotti letterari più effervescenti della capitale – per sottoporle il seguente quesito: vivere o no «alla Sanin»? Un nome, quello del vizioso protagonista del romanzo omonimo di Michail Arcybašev, che all’epoca sintetizzava in sé tutta una serie di idee quantomeno controverse: la celebrazione del libero amore, contrapposto sia al puritanesimo rivoluzionario che alla grettezza piccolo-borghese, la rivendicazione dell’eguaglianza tra i sessi, equiparati nella ricerca del piacere e, infine, una sfida inequivocabile lanciata all’intelligencija progressista, accusata di fatale inconcludenza.

Abbracciare il credo edonistico professato da quel bestseller scandaloso era una tentazione sempre più forte per i giovani che, all’indomani del tentativo rivoluzionario fallito del 1905, si chiedevano se proseguire malgrado tutto sulla via di un sacrificio eroico, oppure rinnegare l’esperienza dell’andata al popolo per calcare le orme del lussurioso Sanin. L’ingenuità di una simile alternativa – immemore del divario esistente tra finzione artistica e vita – dimostrò alla Gippius, appena rientrata da Parigi, con quale febbrile auto-immedesimazione fossero stati dibattuti durante la sua assenza i temi di quel romanzo che da lì a breve sarebbe stato tradotto perfino in arabo e in giapponese e tacciato di «pornografia» in Germania, con tanto di processo ai danni dell’incauto traduttore.

A distanza di decenni, Henry Miller avrebbe ricordato in Plexus il «pleasurable shock» procuratogli dalla famigerata opera di Arcybašev, bandita nel frattempo dagli scaffali sovietici. A ridosso della pubblicazione invece gli ammiratori di Sanin (i cosiddetti «sanincy») si riunivano addirittura in vere e proprie comuni, cercando di mettere in pratica le idee del romanzo e attirandosi così la riprovazione di vicini e autorità. «Una cosa sola so: sono vivo e non voglio che la mia vita sia una sofferenza», dichiara il protagonista, vigoroso giovanotto con una militanza politica alle spalle, cresciuto in totale libertà lontano dalla famiglia, «come un albero in mezzo a un campo».
La cinica consequenzialità con cui persegue i propri scopi (trarre piacere dall’hic et nunc, senza infingimenti o esitazioni di natura morale) sconcerta gli abitanti della sonnacchiosa cittadina natale in cui è riapparso all’improvviso, innescando una raffica di eventi a dir poco drammatici. L’impatto con la sua rapace concupiscenza e la sua condotta «al di là del bene e del male» risulta esiziale sia per i personaggi più disprezzabili (l’ufficiale Zarudin che dopo aver sedotto la sorella di Sanin, Lida, si suicida perché quest’ultimo, pur essendosi rifiutato di affrontarlo in duello, lo disonora schiaffeggiandolo davanti a tutti), sia per quelli più indifesi, come l’aspirante rivoluzionario Solovejcik. Ferito dall’indifferenza di chi vorrebbe coinvolgere nella lotta contro lo zarismo, nonché da uno sprezzante commento del protagonista («Chi non vede nella vita qualcosa di piacevole, è meglio che si uccida»), questa epitome dell’«ebreuccio» isolato dal resto della società finisce infatti per impiccarsi.

La figura del suo doppio
Ma è soprattutto nel caso del suo «doppio», Jurij Svarožic, che la forza oscura di Sanin agisce implacabile. Giunto in città dopo aver scontato sei mesi di carcere per attività eversiva, Svarožic è un intellettuale irresoluto, patologicamente egocentrico, in rotta col padre aristocratico, ma al contempo incapace di trovare un autentico contatto col popolo. Affascinato dall’esempio di Sanin, perviene a posizioni analoghe per quanto riguarda l’impegno politico («Perché mai dovrei portare il mio Io alla gogna affinché i lavoratori del Trentaduesimo secolo possano avere cibo e sesso a volontà?»), ma a differenza del suo antagonista non sa inebriarsi dell’immersione panica nella natura né tantomeno assaporare senza rimorsi le gioie della carne. Così, all’indomani del colpo di pistola con cui mette fine alla sua esistenza suona esatto, benché impietoso, il giudizio di Sanin: «…fino a tre secondi prima non sapeva nemmeno che si sarebbe sparato. È morto come è vissuto».
Se nei Demoni di Dostoevskij Kirillov si era suicidato per dimostrare la propria «spaventosa libertà» e diventare simile a Dio, Svarožic si toglie la vita per non andare a pranzo coi familiari ed evitare di sprofondare nella routine – difficile immaginare un contrasto più stridente. Inesorabile nel portare alla rovina chi a suo avviso è un «uomo superfluo», Sanin salverà invece la sorella che sta per gettarsi nel fiume dopo aver scoperto di aspettare un figlio da Zarudin. E non lo farà certo per affetto fraterno, visto che tra i due ci sono tutti i presupposti per una passione incestuosa, ma solo perché Lida – a differenza di Solovejcik o dell’odioso ufficiale – è troppo bella per sprecare la sua esistenza. Quello della bellezza è un motivo centrale in Sanin e appare indissolubilmente legato al tema del soddisfacimento immediato dei propri istinti. «La comprensione del piacere è uno dei pochi tratti che distingue l’autentica natura dell’uomo da quella degli animali (…) E quindi lo scopo della vita è il piacere», afferma il protagonista, inebriandosi tanto dei corpi delle concittadine – autentiche gigantesse immancabilmente provviste di spalle rotonde e seni sodi – quanto della lussureggiante natura che lo circonda. L’utopia di Sanin è invertire nientemeno che il cammino intrapreso dall’umanità sotto il giogo del cristianesimo a partire dalla condanna della concupiscenza in quanto peccato originale e riportare così l’Eden sulla Terra. Una regressione all’innocenza che, nella visione del protagonista, non può passare se non attraverso la riabilitazione degli istinti fisici, frettolosamente bollati come bestiali.

Genealogia di un eroe
Consapevole che la critica sarebbe risalita a più di un precedente illustre (dall’uomo di natura di Rousseau, all’Unico di Max Stirner all’Übermensch nietzschiano) per ricostruire la genealogia del suo eroe a un tempo enigmatico e spietato, Arcybasev si diverte a sparigliare le carte, facendo addormentare di noia Sanin su una copia di Così parlò Zarathustra e rivendicando un suo legame esclusivo con la cultura russa. E, in effetti, i riferimenti «autoctoni» sono più che evidenti – dalla polemica con le teorie sul matrimonio e l’astinenza esposte da Lev Tolstoj nella Sonata a Kreutzer al dialogo a distanza con Cechov, che nel racconto Il duello aveva già messo alla berlina il retaggio feudale della «sfida tra gentiluomini».

Malgrado l’epigrafe tratta da Ecclesiaste 7, 29 («Dio ha fatto l’uomo retto, ma essi cercano tanti fallaci ragionamenti»), Sanin resta innanzitutto romanzo di idee, come non mancò di notare il critico Kornej Chukovskij, osservando che in Russia perfino la pornografia era intrisa di ideologia. Se a colpire il pubblico all’epoca furono soprattutto le descrizioni degli illeciti amplessi tra i personaggi, al di là di questo erotismo un po’ polveroso è suggestivo rileggere oggi il libro di Arcybasev in quanto opera profondamente radicata nel contesto di allora. Per molti giovani infatti «non vivere alla Sanin» sarebbe equivalso a «morire alla Svaroži» – come dimostrerà l’aumento esponenziale dei suicidi tra gli studenti nel primo decennio del Novecento. Ma Sanin può essere letto anche come un testo a tratti semplicemente magnifico, dove i turbamenti di una generazione allo sbando sono narrati con una franchezza davvero insolita per la tradizione letteraria russa e dove le geometrie dei rapporti tra i sessi vengono restituite con una precisione tuttora attuale: «Lui l’aveva vinta con la sua forza e la sua audacia, lei aveva vinto lui con la sua ingenuità e bellezza, e avevano paura l’uno dell’altra».