Alle otto del mattino di venerdì la Main Street gelata di Park City non pullulava di inferociti fan di Michael Jackson. Ma c’era polizia. E, come ha surrealmente spiegato il direttore del festival John Cooper, se qualcuno si fosse sentito turbato dai contenuti del film in programma, fuori dalla sala c’era personale medico pronto a soccorrerlo. Etichettata «Evento speciale», la proiezione di Leaving Neverland, in uno dei più stimati festival del mondo, è una rappresentazione perfetta del clima culturale nell’America di oggi – sensazionalista, superficiale, moralista e opportunistico. Una scelta, quella di includere questa miniserie di quattro ore sui supposti abusi di Michael Jackson, rispetto alla quale il Sundance si sente evidentemente a disagio (due sole proiezioni: una all’alba e l’altra giù a Salt Lake City) ma al cui effetto shock non ha resistito. Il film di Dan Reed, presto su HBO (che propende al doc scandalistico), è costituito di due interviste fiume, a Wade Robson e James Safechuck, e alle rispettive famiglie. Oggi ultratrentenni, Robson e Safechuck entrarono nella sfera di Jackson quando erano bambini, a sette e dieci anni.

NEL 2005, durante il processo che avrebbe scagionato Jackson, Robson aveva testimoniato a favore della star, dicendo che non lo aveva mai abusato. Per poi cambiare idea e chiamare in causa per danni gli amministratori del patrimonio Jackson nel 2013. Un’analoga denuncia di Safechuck è dell’anno seguente. Ma l’arco del film di Reed non prevede minuzie legali come queste: Leaving Neverland è il racconto di due bambini, di Brisbane e della californiana Simi Valley, rapiti dalla loro innocente vita middle class, e sedotti, insieme ai consenzienti genitori, dalla star più famosa del mondo, in una nuvola di lusso, fama, corruzione morale e abuso sessuale. Tra le sequenza più allucinanti, e repellentemente voyeuristiche, una visita via drone al ranch di Neverland, con il voice over di Robson che spiega tutti i posti dove lui e «Michael» avrebbero fatto sesso -come un episodio di The Life and Style of the Rich and Famous, con pedofilia. L’obbrobbrio di questo film è più profondo del fatto che non si preoccupa di corroborare le storie dei Robson e degli Safechuck (l’estate di Jackson ha rilasciato una smentita durissima). Wade e James, presenti alla proiezione e per il q&a hanno avuto un’accoglienza da eroi.

Un giovane Weinstein nel doc «Untouchable»/cortesia Sundance festival

APPLAUDITI come eroi anche i survivors dell’altro mostro del giorno, Harvey Weinstein (per chi avesse avuto lo stomaco era in programma anche un documentario su Roy Cohn; con Bill Cosby previsto per sabato). Come in Leaving Neverland , la premessa di Untouchable è che fama, lusso e potere sono richiami irresistibili per i comuni mortali. Più patinato e meno trash di quello di Reed, il documentario di Ursula MacFarlane, paga la sua timidezza con un quasi effetto boomerang. Weinstein, si sa (oltre a definirsi, in una della citazioni più colorite del doc, «il fottuto sceriffo di questo buco di culo di fottuta città, New York» ) è stato un re qui a Sundance, per quasi vent’anni. E basta guardare alla ferocia dei tabloid in cui si sta svolgendo l’attuale campagna Oscar per capire che la sua influenza sul cinema Usa è tutt’altro che evaporata nella valanga di accuse che hanno finito la sua carriera, e lo vedranno presto al banco degli imputati. MacFarlane ricostruisce la sua parabola da promoter musicale a demiurgo della scena indie e grande burattinaio degli Oscar – in un vortice di celebrities, feste miliardarie e potentati. Ex impiegati della Miramax parlano del suo genio, delle scenate, dei sospetti e della disillusione; alcune delle donne che lo hanno denunciato (tra cui Paz de La Huerta e Rosanna Arquette) descrivono gli abusi subiti – i loro racconti simili uno all’altro: il ritratto di una patologia. Ma, se si eccettua la lunga, dolorosa, testimonianza in primo piano, di un’assistente degli anni di Buffalo, il film è così poco interessato ad andare oltre alla cronaca più banale e ripetuta, da risultare noioso, vittima di un voyeurismo non dissimile da quello di Reed.

DI TUTT’ALTRA pasta e ambizione l’ultimo documentario di Alex Gibney, The Inventor: Out For Blood in Silicon Valley, sulla storia incredibile di Elizabeth Holmes, enfant prodige di Silicon Valley, rara donna nel rarefatto mondo dei Gates, Jobs e Zuckenberg. La sua invenzione? Una scatola nera, chiamata Edison, capace di effettuare, nel giro di pochi minuti, fino a duecento esami da una sola goccia di sangue. Basta con gli aghi, le lunghe attese e i costi altissimi, e via a una rivoluzione della diagnostica che avrebbe portato la medicina a portata di paziente e salvato milioni di vite umane. Entro il 2014 la compagnia di Holmes era valutata 9 miliardi di dollari. Peccato che si trattasse di una bufala colossale, in cui è caduta anche una della maggiori catene di farmacie Usa, Walgreen. Henry Kissinger, George Schultz e James Mattis tra i sostenitori di quest’ipnotica trentenne, amata anche dall’amministrazione Obama.
Oltre che un variegato ritratto di donna al potere, e di una truffa del secolo, il film di Gibney – lucido, ricercatissimo, intelligente e compatto come sempre i suoi- è uno squarcio feroce sui rischi dell’infatuazione per le «belle promesse» dei geni da tech company. La posta ben più alta di una statuetta patinata d’oro.