Il principe Mohammed bin Salman con i suoi miliardi non può garantirsi vittorie ai ‎Mondiali in Russia ma senza dubbio può comprare la politica estera degli altri paesi ‎arabi. Hanno avuto un riflesso immediato i 2,5 miliardi di dollari che, lo scorso 10 ‎giugno, assieme ad Emirati e Kuwait, l’Arabia saudita ha messo disposizione della ‎Giordania attraversata nei giorni scorsi da proteste e manifestazioni contro il Fmi e ‎la politica economica dell’ex premier Hani al Malqi. Ieri la Giordania ha annunciato ‎di aver ‎«trasferito», ossia richiamato in patria, il suo ambasciatore in Iran, Abdullah ‎Abu Rumman. La notizia, non a caso, è stata data subito dalla tv satellitare al ‎Arabiya, megafono della monarchia saudita. Una decisione che il governo di ‎Amman ha spiegato con una presunta ‎«interferenza dell’Iran negli affari regionali‎» e ‎con la preoccupazione della Giordania per ‎«la sicurezza della regione ed in ‎particolare dell’Arabia Saudita e dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo ‎‎(Ccg)‎».

‎ Il passo giordano segue quello, altrettanto immotivato, mosso qualche ‎settimana fa dal Marocco, sempre su pressione saudita, per accrescere l’isolamento ‎di Tehran. Termina perciò la politica prudente mantenuta in questi ultimi anni da re ‎Abdallah di Giordania che pur dichiarandosi vicino all’Arabia saudita e alle altre ‎petromonarchie ha comunque tenuto aperto canali di comunicazione con l’Iran e ‎adottato una posizione più defilata nei confronti della crisi siriana. Linea che era ‎costata ad Amman il mancato rinnovo nel 2016 del pacchetto quinquennale di aiuti ‎dal Ccg. La Giordania peraltro è rimasta dietro le quinte nella campagna militare ‎lanciata da Mohammed bin Salman contro i ribelli sciiti in Yemen. Ora, si sussurra, ‎re Abdallah potrebbe dare, contro le sue intenzioni e l’opposizione dei palestinesi, ‎appoggio all'”Accordo del secolo” di Donald Trump per la “soluzione” della ‎questione israelo-palestinese, che piace a Riyadh. ‎