Joseph indossa jeans chiarissimi e scarpe da ginnastica bianche, il colore dei suoi abiti spezza il nero delle baracche bruciate che si estendono alle sue spalle. Sul suo viso si alternano espressioni di smarrimento e incredulità. Si toglie le cuffiette e mi dice che non sapeva niente dell’incendio e di essere appena arrivato da Bassano del Grappa, dove era andato per rinnovare i documenti. Chiedo a Joseph cosa farà: «Non lo so, ci stanno portando via senza dirci dove andremo e per quanto tempo».

Infatti, ai bordi della tendopoli di San Ferdinando partono i primi pullman per il trasferimento dei migranti. Sono portati a piccoli scaglioni nel commissariato di Gioia Tauro con volanti della polizia, pullman e auto private. Sui numeri dei migranti che sono andati via c’è gran confusione, nemmeno in commissariato sanno fornirmi una cifra esatta.
Dopo averli identificati, vengono smistati in vari centri: poco più di 20 ragazzi sono andati nel Cara di Crotone e i restanti 30 nei Cas di Vibo Valentia e Reggio Calabria, quest’ultimo resterà attivo fino alla fine di marzo. A confermarlo è il responsabile della cooperativa «We for you» Giuseppe Libri.

C’è molto scetticismo tra chi vorrebbe lasciare la tendopoli, la preoccupazione maggiore è quella del lavoro. «Come faremo a mantenere i contatti con i datori di lavoro a oltre 50 chilometri di distanza» protesta Djallo. Il trasferimento più che su base volontaria sembra fatto in base all’esasperazione. Un gioco di forza tra stato e migranti.

Poco tempo fa la polizia ha effettuato un censimento nella tendopoli, in pieno giorno mentre molti dei suoi residenti erano al lavoro, contando poco più di 1000 persone. In realtà sono più del doppio, oltre 2000. Invece i posti messi a disposizione nei vari centri di accoglienza in Calabria sono circa 250. Celeste Logiacco, segretario della Cgil di Gioia Tauro, afferma: «C’è molta confusione in quest’accoglienza improvvisata. Farò di tutto per monitorare questi ‘progetti’ e capire quali sono le soluzioni che riguarderanno tutti coloro che hanno deciso di non spostarsi o di coloro che non ne hanno diritto secondo il decreto sicurezza».

Mi chiama Amidou, dal Cas di Reggio Calabria, dove è arrivato da una manciata di ore. Ha appena scoperto la chiusura annunciata del progetto tra poco più di un mese. «La casa è buona e c’è abbastanza spazio. Ma qui a fine marzo ci mandano via, e poi? Ci dividono per renderci meno forti. Sempre meglio qui che in una tendopoli», alza il tono di voce e continua urlando «tra due mesi dove saremo? In un altro ghetto? A Foggia?! Dopo 3 anni dal mio arrivo in Italia è come se per me fosse il primo giorno». Fa una lunga pausa e la sua voce si rabbuia, sembra di parlare con un’altra persona «almeno a San Ferdinando avevo un lavoro, degli amici, una vita». Il rischio è che senza risposte concrete, Amidou torni nella tendopoli nel giro di pochi giorni.