Se il sistema politico americano fosse una banca non c’è dubbio che i continui stress test a cui lo sottopone il presidente Donald Trump sarebbero una prova della sua robustezza, quanto meno finché non arriverà il crack.

La dichiarazione di una «emergenza nazionale» palesemente inesistente per finanziare la costruzione di un breve tratto di muro al confine con il Messico sarà nelle prossime settimane un’ulteriore prova per verificare se la Costituzione degli Stati uniti resiste al demagogo dal ciuffo arancione, o se invece Trump e i repubblicani avranno la meglio.

Il punto di partenza sulla vicenda del muro è la questione di chi abbia il potere di deliberare su tasse e spese. L’articolo 1 della Costituzione, sezione 9, è molto chiaro: «Nessuna somma potrà essere pagata dal Tesoro se non in conseguenza di stanziamenti disposti per legge» e le leggi di bilancio sono materia di competenza del Congresso. L’amministrazione Trump sostiene che gli stanziamenti sono già stati approvati e che le somme di cui si sta discutendo, circa 8 miliardi di dollari, sarebbero semplicemente spostate da alcune voci di bilancio ad altre in base alla legge sui poteri del presidente in caso di emergenza.

Questi poteri, tuttavia, sono sostanzialmente limitati ai casi di operazioni militari in corso, o imminenti, non certo per una presunta invasione di migranti, o di carichi di stupefacenti, attraverso il Rio Grande. L’azione di Trump è quindi una palese violazione del principio della separazione dei poteri, anche se arriva dopo una lunghissima fase in cui il Congresso americano ha sostanzialmente abdicato al suo ruolo a favore di presidenti-monarchi.

Per i costituzionalisti, a confronto con i dettagliati poteri del Congresso elencati nell’articolo 1 della Costituzione, le prerogative esclusive del presidente precisate nell’art. 2 appaiono assai modeste: il giudizio di due politologi come Thomas Mann e Norman Ornstein è che: «I costituenti volevano fosse chiaro che il Congresso era il primus inter pares fra i tre poteri dello Stato».

Trump, come molti presidenti prima di lui, in particolare durante la guerra fredda, rivendica la necessità di decisioni rapide ed efficaci, in particolare per quanto riguarda la sicurezza nazionale, ma ignora quanto appare chiaro ai giuristi: «La dottrina della separazione dei poteri fu adottata dalla convenzione del 1787 non per promuovere l’efficienza ma per impedire l’esercizio arbitrario del potere. Lo scopo non era quello di evitare frizioni ma, attraverso le inevitabili frizioni che caratterizzano la distribuzione dei poteri di governo in tre dipartimenti, salvare il popolo dall’autocrazia». Questo è un celebre passo dell’opinione del giudice Brandeis nella sentenza della Corte Suprema Myers v. United States, del 1926.

Nel caso di Trump non c’è dubbio che abbia una vocazione naturale all’autocrazia, come dimostrano i numerosi casi in cui i suoi provvedimenti sono stati bloccati dai giudici federali: il primo fu il divieto di ingresso negli Stati uniti a tutti i cittadini di sette paesi di religione islamica. Poche settimane dopo, Trump minacciava di imporre dazi contro specifiche aziende che avevano delocalizzato all’estero i loro stabilimenti (anche in questo caso si trattava di poteri riservati al Congresso e comunque da esercitare in forma non discriminatoria). Infine, Trump minacciava di privare della cittadinanza americana i figli di migranti nati sul territorio degli Stati uniti, in palese violazione del XIV emendamento.

Il presidente autocrate sa che anche il giudizio sui suoi trucchetti contabili per permettere la costruzione del muro finirà davanti ai giudici e ha addirittura anticipato la possibilità di giudizi negativi in primo grado e in appello, dichiarandosi però fiducioso di una sentenza favorevole quando il caso arriverà alla Corte Suprema.

È possibile che vada effettivamente così: oggi il massimo organo del potere giudiziario ha una maggioranza di giudici apparentemente disposti a fargli da tappetino. Sarà questo il prossimo stress test per la democrazia americana.