Tra illazioni e smentite il governo va avanti alla cieca sul sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza». Palazzo Chigi ieri ha smentito la voce accreditata da alcuni media ai «consulenti del ministero del lavoro» secondo i quali l’importo medio mensile del «reddito di sudditanza», e della cosiddetta «pensione di cittadinanza», sarebbe di 500 euro per nucleo familiare e non più di 780 euro da cui detrarre la differenza con il reddito Isee.

A smentire l’indiscrezione dei propri tecnici è intervenuto anche Luigi Di Maio. La misura bandiera dei Cinque Stelle «come è partita così arriva», ha assicurato. Dunque, né slittamento a giugno (troppo tardi per elezioni europee del 2019), né rimodulazione superiore ai 305 euro medi del «reddito di inclusione» (ReI) del Pd, ma simbolicamente troppo basso per la platea elettorale. Ciò che nello scontro sui «numerini» – che è sostanza politica nella dialogante disfida con Bruxelles – resta ancora fermo sono i requisiti dell’Isee fino a 9.360 euro, l’integrazione entro 9.360 euro annui, 30mila euro di capitale immobiliare oltre alla prima casa, entro i 10mila euro per famiglie con più figli, 5mila euro per i disabili. Prevista una quota per l’affitto per 300 euro che sarà aggiunta, entro il tetto stabilito sulla base del reddito mediano nazionale di 780 euro per un single, o tolta, se la casa è di proprietà. I coefficienti sarebbero calcolati sul numero dei componenti del nucleo familiare sono stati fissati a 0,2 in più per ogni adulto e 0,4 in più per ogni minore. In questo modo si potrebbe anche dare il caso di una famiglia con due disoccupati in affitto, e quattro figli. Il sussidio sarebbe di 18mila euro annui.

È confermato che il «reddito di cittadinanza» altro non sarà che un trasferimento di reddito alle aziende di tre mensilità per tutte le altre assunzioni di beneficiari. Si parla in maniera insistente di sei mesi di «reddito» alle imprese se le assunzioni riguarderanno le donne e disoccupati di lungo periodo oltre i 24 mesi. Il mix di sussidio di ultima istanza per i «poveri assoluti» e di elargizione di ricchezza pubblica alle imprese è confermato, generando così una confusione tra il diritto della persona e il beneficio di un’impresa di goderlo. Nemmeno nei paesi dove si è sperimentata la politica attiva del lavoro più condizionante si è arrivati a prospettare una simile torsione economicista del workfare.

Il problema è quello dei fondi con i quali finanziare il «reddito», come la pensione a «quota 100». Ieri la Cgia di Mestre ha ricordato che i fondi arriveranno dall’aumento delle imposte per le assicurazioni, gioco d’azzardo e banche: 6,2 miliardi di euro. «È vero – ha risposto Di Maio- Invece dal 2019 per il 99,9% delle imprese italiane, cioè pmi e le altre grandi imprese è previsto un taglio delle tasse di 500 milioni» che «salirà nel 2020 a 2 miliardi di euro e a 4 miliardi di euro nel 2021. Noi prendiamo soldi da chi non ha mai sganciato soldi in questi anni, anzi li ha presi».

Ma i problemi non sono finiti. La Commissaria Ue al lavoro Marianne Thyssen ha ribadito a Di Maio l’impossibilità di ricorrere al Fondo sociale europeo per finanziare il sussidio. Non sarà facile trovare una quadra con le regioni che hanno in mano i fondi per la formazione e dovrebbero partecipare, a qualche titolo, alla riforma dei centri per l’impiego.