C’è voluta qualche ora e vari aggiustamenti in corso d’opera per formulare una versione ufficiale dei violenti scontri scoppiati ieri all’alba nell’aeroporto internazionale di Tripoli che hanno provocato una vera carneficina, almeno 20 morti e oltre 60 feriti, alcuni in gravissime condizioni trasportati all’ospedale «italiano» di Misurata. Una versione che togliesse dall’imbarazzo il premier appoggiato dall’Italia e dalla comunità internazionale, Fayez Serraj, visto che i due gruppi armati che si sono fronteggiati con armi pesanti fino al tramonto facevano parte entrambi delle sue milizie.

A rendere ancor più palese l’incresciosa situazione del pilastro della politica italiana di contrasto all’immigrazione, la ministra della Difesa Roberta Pinotti in audizione al Senato, con i combattimenti ancora in corso, ha ricordato che ad ogni buon conto «la nave Capri è ormeggiata presso la base navale di Tripoli, pronta, qualora ci fosse necessità, a muoversi», con a bordo il personale della nostra ambasciata o nel peggiore dei casi, è inteso, lo stesso Serraj.

L’aeroporto internazionale Mitiga è da tempo al centro degli sforzi italiani per garantire almeno una green zone al governo di accordo nazionale, e un luogo di transito sicuro. L’attacco di ieri ha dimostrato che anche questo obiettivo minimo non è ancora stato raggiunto. Lo scalo è stato preso d’assalto dagli uomini di una milizia di Tajura, promontorio che sormonta a est la capitale, a bordo di una cinquantina di mezzi militari, che pretendevano la liberazione di due uomini arrestati pochi giorni fa dalle forze speciali della Rada, la guardia speciale di Serraj o Special deterrence force, che gestisce anche il principale carcere tripolino proprio dentro la base aerea di Mitiga e che solo richiamando tutti gli effettivi di una decina di brigate a fine giornata ha avuto la meglio nella battaglia. I due uomini erano stati imprigionati come terroristi affiliati ad Al Qaida.

La milizia che ne pretendeva la scarcerazione era, secondo il giornale online The Libya Observer, la 33° Katiba (Brigata) della fanteria di Serraj. La stessa che – guarda caso – proprio ieri pomeriggio lo stesso premier ha provveduto a sciogliere d’imperio, imponendo la riconsegna delle armi e il nuovo inquadramento nelle truppe governative.

Il disciolto battaglione è stato definito, nelle varie versioni del governo Serraj, in vari modi: Zamrina, i ribelli di Bugra, le forze controllate da Bashir Khalafullah al-Maqni detto «Giovenca» – come la shura del Corano più ostile verso ebrei e pagani. Infine la colpa delle morti, tra i quali due civili – un contabile della compagnia Libyan Airlines che stava tornando a casa e una signora africana – ad opera della Brigata 33 è stata attribuita alle trame di Khalifa Ghwell, a capo del terzo governo libico che da sempre contrasta Serraj e gli contende il controllo delle strade della capitale (l’altro è il governo di Baida che appoggia il parlamento di Tobruk e il generale cirenaico Khalifa Haftar).

Ieri dell’evoluzione della crisi libica hanno parlato al telefono Gentiloni e Putin, mentre a Mosca il ministro degli Esteri Serghiej Lavrov nella conferenza annuale a proposito della Libia ha detto che la Russia, con un ruolo di stabilizzatrice della regione, appoggia ora non solo Haftar ma «l’opera dell’inviato Onu Ghassam Salamé».