I fucili a pallettoni sono usati generalmente per difendere proprietà terriere da animali selvatici di stazza variabile: dai conigli ai cervi, per intenderci. Esploso il colpo, centinaia di piccoli proiettili di piombo sono lanciati ad altissima velocità in direzione dell’obiettivo, causando centinaia di micro-ferite sufficienti a mettere in fuga l’animale.

LA STESSA TECNICA DISSUASIVA dal 2010 è stata introdotta nello stato del Kashmir al fianco del lancio di bastoni e lacrimogeni. Mix giudicato «non letale» utilizzato dalla polizia del Jammu Kashmir e dalla Central Reserve Police Force (Crpf, la polizia federale indiana massicciamente presente in tutto il Kashmir per ordini di New Delhi) per disperdere le proteste contro quella che la maggioranza dei kashmiri considera un’occupazione militare e per l’azadi (libertà, in urdu), l’indipendenza dall’India.

Almeno questa è la versione ufficiale delle autorità, meticolose nel circoscrivere l’utilizzo delle pellet gun esclusivamente in situazioni di piazza, quando alle proteste popolari si sovrappone il lancio di pietre contro gli agenti: consuetudine che si ripete, ad esempio, ogni venerdì pomeriggio nei viali antistanti la Jama Masjiid di Srinagar, la più grande moschea dello stato, dopo il sermone religioso-politico dell’imam e leader separatista kashmiro Mirwaiz Umar Farooq.

QUANDO L’8 LUGLIO DEL 2016 l’esercito indiano uccise il giovane Bhuran Wani – 22 anni, comandante del gruppo separatista Hizbul Mujahideen, considerato un eroe da un’intera generazione di giovani kashmiri – in tutta la valle del Kashmir esplosero centinaia di proteste, segnando un anno di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine tra i peggiori della storia recente. Ed è proprio dall’8 luglio 2016 che polizia ed esercito iniziarono a utilizzare estensivamente i fucili a pallettoni contro manifestanti e passanti, lanciatori di pietre minorenni e intere famiglie «al sicuro» all’interno delle proprie case. Un’offensiva indiscriminata che, secondo i dati ufficiali, ha causato in pochi mesi 15 morti e diverse migliaia di feriti da pellet gun. Tra questi ultimi, costretti a convivere con decine o centinaia di micro-proiettili di piombo nel corpo in aggiunta ai disturbi post traumatici da stress, le vittime di pellet gun colpite agli occhi rappresentano un drammatico caso a parte.
Secondo le regole di ingaggio delle forze dell’ordine in Kashmir, le cartucce a pallettoni devono essere sparate solo «sotto la cintura», evitando danni alla parte alta del corpo. Indicazione sistematicamente ignorata dagli agenti sul campo che ha causato migliaia di casi di cecità parziali o totali.

BILAL, 19 ANNI, il 28 agosto 2016 è stato colpito da una scarica di pallettoni. Uno di questi gli ha perforato la retina, riducendo la visibilità dell’occhio sinistro al 30%: ora, da quell’occhio, vede solo ombre. Intervistata dal manifesto nella sua casa di Srinagar, la sua famiglia ha spiegato: «È stato colpito da una distanza di dieci metri e, assieme ad altri due amici feriti, è stato portato in ospedale. Le autorità ci hanno proibito di visitarlo per otto giorni e non ci hanno consegnato né le lastre né gli esiti delle radiografie: dicevano che era «materiale confidenziale». Dopo una prima operazione all’Smhs Hospital di Srinagar, Bilal si è sottoposto ad altri quattro interventi, tutti falliti: il proiettile rimarrà nel cranio, oltre la retina danneggiata, e Bilal non riprenderà mai più la vista.

Fatima, seconda di tre sorelle, ha raccontato: «Il 10 luglio 2016 la situazione era molto tesa. Mia sorella maggiore era malata e dovevamo portarla in ospedale. Mentre uscivamo, accompagnate da nostro zio, un autobus carico di polizia si è fermato davanti casa. Tre uomini sono scesi e quando abbiamo protestato, dicendo loro di farci passare, ci hanno sparato contro da distanza ravvicinata. Fortunatamente mio zio è riuscito a chiudere il cancello quasi subito». A questo punto lo zio alza le gambe dei pantaloni e si sbottona la camicia, mostrando decine di piccole escrescenze nere sottopelle: sono i pallettoni e, ultimo referto medico alla mano, risulta ne abbia in corpo quasi 250. La nipote più grande, 22 anni, se l’è cavata con una trentina. La più piccola, cinque anni, ce ne mostra uno sopra la fronte. In corpo, tra gambe e addome, ne ha altri cinque.

«I PRIMI GIORNI dopo l’8 luglio 2016 ricevevamo quotidianamente tra i 50 e i 60 pazienti feriti agli occhi dai proiettili dei fucili a pallettoni; fino a quel momento, ne contavamo 50 o 60 all’anno» spiega Rashid Maqbool, oftalmologo all’epoca dei fatti in servizio all’Smhs Hospital di Srinagar, ora impiegato in una struttura privata. «Dalla direzione dell’ospedale erano arrivate direttive chiare: non consegnare i referti medici e non parlare coi giornalisti. Non volevano che i dettagli di quanto accadeva venissero resi pubblici. Più me lo dicevano, più facevo l’opposto, e alla fine mi hanno allontanato».

SECONDO MAQBOOL, i pazienti che hanno perso parzialmente o completamente la vista a causa dei proiettili a pallettoni sarebbero almeno 1200. Anche perché i medici di turno si trovarono di fronte a un’emergenza mai incontrata prima: «Non avevamo gli strumenti né la preparazione per far fronte a un flusso di feriti simile, né esistono indicazioni precise su come agire davanti a una ferita oculare causata da un pallettone di piombo. Oltre a bloccare le ferite e provare a rimuovere il proiettile, quando possibile, non sapevamo che altro fare».

NONOSTANTE LE PROTESTE ufficiali mosse contro il governo di New Delhi e gli appelli di organizzazioni come Amnesty International per l’abolizione dei fucili a pallettoni in Kashmir, questi «proiettili non letali» sono ancora in uso in tutto lo stato. «Il Kashmir è l’unico stato indiano in cui sono permessi i fucili a pallettoni contro la folla. E l’unico posto al mondo dove vengono sparati a qualsiasi altezza, indiscriminatamente», spiega Maqbool.

CON MIGLIAIA DI FERITI in tutto lo stato e centinaia di kashmiri condannati a cecità parziale o totale, nessun agente di polizia a oggi risulta indagato per l’uso improprio di pellet gun contro uomini, donne e bambini: una manifesta impunità che non fa altro che esacerbare il confronto tra la popolazione kashmira e lo stato federale indiano considerato «invasore». Maqbool, sintetizzando il sentimento espresso da decine di kashmiri incontrati da il manifesto nell’ultima settimana, sintetizza: «Ogni singolo kashmiro odia l’India fino all’ultima goccia del proprio sangue. E non per ideologia, ma per quello che ci hanno fatto e che ci stanno ancora facendo qui nella nostra terra».