Saad Hariri ha annunciato lunedì che si ritirerà dalla politica e non correrà per le elezioni del 15 maggio prossimo. Così come il Movimento Futuro, di cui è fondatore e leader, nato in seguito all’assassinio il 14 febbraio 2005 del padre Rafiq (allora primo ministro) quando Saad ne ha preso il posto.

«Sono convinto che non ci sia spazio per nessuna opportunità positiva per il Libano per colpa dell’influenza iraniana, la nostra indecisione con la comunità internazionale, le divisioni interne e quelle settarie».

Hariri diventa per la quarta volta premier quando, in seguito all’esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020, il primo ministro in carica Diab rassegna le dimissioni. Nei dieci mesi che vanno dall’ottobre 2020 al luglio 2021, quando Hariri rinuncia definitivamente all’incarico, le tensioni con il presidente Aoun e i suoi alleati sciiti gli impediscono di formare un governo.

La base del partito è spaccata e Hariri perde consenso, anche perché negli ultimi anni le sue posizioni sono state considerate troppo diplomatiche verso Hezbollah. A ciò si aggiunga che è agli Hariri che molti imputano le radici della crisi economica che attanaglia il Libano, un mix di privatizzazioni e politiche neoliberiste prese di mira dalla protesta esplosa nell’ottobre 2019.

Il Movimento Futuro è stato finora il partito che maggiormente ha rappresentato la comunità sunnita in Libano e il perno centrale dell’alleanza 14 Marzo, contrapposta a quella 8 Marzo, ovvero il blocco Aoun-Hezbollah-Amal.

Saad Hariri (foto: Ap)

Ieri mattina supporter di Hariri hanno bloccato le strade di quartieri della capitale, Corniche al-Mazra, Tariq Jadide, Verdun, Bechara al-Khoury, storiche roccaforti del Movimento. Altre manifestazioni ci sono stati a Tripoli, nel nord, dove i sostenitori di Hariri, da sempre considerato un moderato, hanno adesso paura di radicalizzazioni all’interno della comunità sunnita.

La mossa di lunedì lascia un vuoto di potere. Tra i manifestanti c’era chi parlava di occasione d’oro per Fouad Makzoumi, businessman, miliardario e politico libanese sunnita, fondatore del partito di dialogo nazionale. Ma al momento i giochi sono aperti e il Libano è in piena campagna elettorale.

Sostegno al leader del Movimento è arrivato ieri da Samir Geagea, capo delle Forze Libanesi, partito della destra cristiana ultraconservatrice che acquista sempre più prestigio, soprattutto dopo il 14 ottobre scorso, quando dei cecchini vicini alle Forze appostati sui tetti nei pressi di Tayyoune – sull’antico confine che separava Beirut est e ovest durante la guerra civile (1975-90) – hanno innescato uno scontro a fuoco con militanti di Amal e Hezbollah, in strada per la rimozione del giudice Bitar che indaga sui fatti del porto, accusato da loro di essere politicizzato. Si è trattato del primo vero e proprio affronto interno al Partito di Dio dai tempi della guerra.

Le dimissioni di Hariri avvengono in un momento difficile per il paese e alla vigilia di elezioni che, per quanto poco sentite, diventano cruciali nell’ottica di un’auspicabile stabilità che possa permettere di attuare le riforme necessarie per tentare di uscire dalla crisi e di non lasciare ulteriormente il paese nell’immobilità, come accade da due anni.

La pressione internazionale è forte e anche la crisi diplomatica con i paesi del Golfo ne è la prova. Il ministro degli esteri kuwaitiano in visita domenica ha affermato che «il Libano non deve fare da piattaforma per parole o atti ostili», ovvio riferimento a Hezbollah.

Il clima continuato di incertezza politica fa in modo che in pratica nessuna risoluzione sia stata ancora adottata. Gli aiuti raccolti dalla comunità internazionale dopo l’esplosione al porto restano bloccati e nulla è stato concordato con il Fondo monetario internazionale.

Nei fatti, dall’inizio della crisi nell’ottobre 2019 sono stati nominati quattro premier, formati due esecutivi e nessuna provvedimento economico sostanziale è mai stato preso.
Secondo le stime dell’agenzia dell’Onu Escwa, la povertà è raddoppiata dal 2019, passando dal 42% all’82% a settembre 2021. La carne è diventata un lusso, ma anche il labneh, lo yogurt alla base della dieta libanese, o il latte. Nessun organo è preposto al controllo dell’inflazione e ciò dà ampio margine di azione agli speculatori.
E in questo gioco al rilancio chi paga il conto delle manovre politiche è il popolo.