Dopo i brogli, lo stato d’emergenza: così, con la sospensione delle garanzie costituzionali per dieci giorni, l’imposizione del coprifuoco dalle sei del pomeriggio alle sei di mattina e una crescente violenza repressiva che ha già provocato tre morti e diversi feriti, il governo honduregno sta rispondendo alle proteste della popolazione contro la spudorata frode elettorale orchestrata contro il candidato dell’Alleanza di opposizione alla dittatura Salvador Nasralla.

Difficile tuttavia arginare la rabbia di un popolo che, dal golpe del 2009 contro Manuel Zelaya, vede calpestata per la seconda volta consecutiva, dopo le fraudolente elezioni del 2013, la volontà espressa nelle urne. E che ha reagito occupando strade, ponti e piazze, comprese le vie strategiche per il trasporto di banane e ananas della Chiquita e della Dole.

Mentre i dati ufficiali sono fermi al 94,31% dei seggi scutinati, con un vantaggio del presidente Juan Orlando Hernández di circa 45 mila voti (pari all’1,5%), si resta in attesa dell’inizio del cosiddetto «scrutinio speciale», il conteggio voto per voto relativo ai circa mille verbali che presenterebbero delle anomalie, corrispondenti a quasi 300 mila voti, alla presenza dell’opposizione e degli osservatori internazionali. L’Alleanza contro la dittatura però non ci sta, rifiutandosi di mandare i propri rappresentanti finché non venga accolta la sua richiesta di controllare tutti i 5.174 verbali introdotti nel sistema telematico del Tribunale Supremo Elettorale, tra una caduta e l’altra del server, senza la presenza di rappresentanti dei partiti politici.

Perché una cosa è chiara: se, con il 70% dei seggi scrutinati, i dati in possesso di tutti partiti trasmessi direttamente dai centri di votazione – e pertanto equivalenti a quelli del Tse – indicavano un vantaggio di Nasralla del 5%, «è matematicamente impossibile», secondo il candidato dell’Alleanza di opposizione, che la tendenza si sia invertita in maniera così netta» – e, guarda caso, proprio a partire da un’interruzione del sistema telematico – con il restante 30% dei seggi, come aveva ammesso, del resto, il magistrato supplente del Tse Marco Ramiro Lobo, parlando appunto di un vantaggio «irreversibile».

Non a caso nelle elezioni del 2013, quando con il 60% dei seggi scrutinati a essere in vantaggio di 5 punti era Juan Orlando Hernández, lo stesso presidente del Tse David Matamoros aveva dichiarato alla stampa: «Le cifre riflettono una tendenza irreversibile. I risultati non cambieranno».

Neppure è lecito attendersi interventi risolutivi da parte degli osservatori della delegazione dell’Oea, guidata da quel Jorge Quiroga che, oltre a essere stato vicepresidente nel governo del generale golpista Hugo Banzer – e dunque con una certa pratica in fatto di colpi di Stato – è noto per essere visceralmente anticomunista e antichavista. Del resto c’è un interrogativo che si pongono i militanti dell’Alleanza di opposizione: cosa avrebbe detto Quiroga se tutto questo fosse successo in Venezuela?