Il 12 dicembre si è celebrata la giornata mondiale per la tutela sanitaria universale. In questa data cade infatti l’anniversario della risoluzione delle Nazioni Unite del 2012 che impegnò i governi a garantire a tutti l’accesso a un sistema sanitario di qualità. Due giorni dopo, il 14, l’Italia ha festeggiato i primi quarant’anni del Servizio Sanitario Nazionale. Il giorno prima, a Marrakesh è stato adottato il Global Compact su migranti e rifugiati.
L’incrocio temporale tra il tema della migrazione e quello della salute non è casuale. Si tratta infatti di due questioni globali sempre più connesse. Nel secolo scorso il sistema sanitario è stato uno dei pilastri dello stato-nazione: l’accesso universale in realtà definiva la cittadinanza e l’appartenenza a una comunità. Oggi, il numero di persone che attraversano i confini è tale per cui un sistema sanitario universale deve necessariamente estendersi a chi ha passaporti diversi. Per molti governi, compreso il nostro, riconoscere diritti universali è contro-producente, perché alimenta ulteriormente la spinta a migrare da paesi in guerra o poveri. Ma su scala globale, questo atteggiamento riproduce su scala locale gli squilibri internazionali, e accresce il numero di persone disposte a migrare in permanenza alla ricerca di condizioni di vita migliori.

ALLA SALUTE nell’epoca delle migrazioni è dedicato un corposo rapporto pubblicato dalla rivista «The Lancet» in vista della conferenza di Marrakesh. Il rapporto è stato stilato da una ventina esperti di tutto il mondo che per due anni hanno esaminato ogni fonte scientifica in materia. Il rapporto contiene moltissimi dati e individua le sfide principali per i sistemi sanitari nazionali. E smonta alcuni luoghi comuni che, come scopriremo, non sono diffusi solo in Italia.
Il primo dato riguarda il numero assoluto di migranti: nel 2018, ben 258 milioni di persone al mondo vivono al di là dei confini in cui sono nati. Può sembrare un numero gigantesco, ma equivale solo al 3,4% della popolazione mondiale. E non è cambiato molto negli ultimi trent’anni: nel 1990, avevano attraversato i confini il 2,9% della popolazione mondiale. Difficile descriverla come «un’invasione». Tra l’altro, la percentuale di rifugiati nei paesi a basso reddito è tripla rispetto ai paesi a reddito elevato (0.7% contro 0.2%).
Anche l’impatto economico dei migranti è largamente mistificato dagli stereotipi: i dati mostrano che un aumento dell’1% della popolazione migrante adulta corrisponde, nelle economie avanzate, a un aumento del PIL pro-capite del 2%. Anche la contraddizione tra l’accoglienza e aiutarli «a casa loro» ha scarso fondamento, perché in realtà i migranti si aiutano da soli a casa propria: le «rimesse» dei migranti valgono in totale 613 miliardi di dollari l’anno. Cioè, circa tre volte i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo da parte dei governi.

UN ALTRO MITO da sfatare è quello secondo cui i nostri sistemi sanitari starebbero collassando sotto il peso della popolazoine migrante. Lo stesso numero di «Lancet» contiene anche il primo studio sistematico sul tasso di mortalità dei migranti. Sulla base un campione di quindici milioni di individui in 92 paesi, si osserva che la popolazione immigrata generalmente ha tassi di mortalità inferiore a quella ospitante, tranne per alcune patologie come tubercolosi, epatite e Hiv. Ma anche in questi casi le infezioni avvengono quasi esclusivamente all’interno delle comunità immigrate. Dunque, il luogo comune dei migranti che «portano le malattie» è una bufala globale. Inoltre, proprio la popolazione migrante rappresenta una percentuale sempre maggiore degli addetti all’assistenza sanitaria, dal personale medico agli assistenti domiciliari. Nel complesso l’arrivo di immigranti comporta un beneficio netto per i sistemi sanitari nazionali dei paesi ospitanti.
Infine, non è vero nemmeno che «gli immigrati fanno più figli». Il tasso di fertilità tra i migranti si aggira poco sopra i due figli per donna, quindi permette appena alla popolazione immigrata di riprodursi. Uno degli studi citati, effettuato in sei Paesi europei, rileva che la popolazione immigrata ha un tasso di fertilità inferiore a quello della popolazione ospitante.

NONOSTANTE queste evidenze, il trattamento sanitario ricevuto dagli immigrati è assai discriminatorio. A cominciare dalle norme, sempre più diffuse nei paesi ad alto reddito, che condizionano il diritto di ingresso degli immigrati allo stato di salute. È il caso dell’Australia, o dei 35 paesi che impongono un bando all’ingresso delle persone sieropositive. In altre parole, tra i migranti lo stato di necessità ostacola, invece di facilitare, l’esercizio di un diritto elementare come l’accesso alla sanità.
Anche nella Ue la tutela sanitaria degli immigrati non rispetta le norme più elementari di uguaglianza. Lo conferma un recente volume curato da Aldo Rosano, primo ricercatore all’Istituto Superiore di Sanità, intitolato «Access to Primary Care and Preventative Health Services of Migrants» (Springer, 2018). Si tratta di un monitoraggio dell’accesso degli immigrati alle attività di prevenzione, come vaccinazioni e screening, in diversi paesi. L’Italia, nonostante una legislazione in materia tra le più avanzate (il nostro servizio sanitario era in cima alle classifiche mondiali per l’equità dell’accesso), è oggi tra i paesi europei con le maggiori disparità tra popolazione locale e immigrata.