Porti chiusi, frontiere militarizzate, respingimenti persino di minori non sono sempre stati la cifra su cui impostare i rapporti tra comunità. Per ricordarci di quando l’Italia era inclusiva, il bimestrale Infiniti mondi, diretto da Massimiliano Amato e Gianfranco Nappi, ha pubblicato il numero monografico «Accogliere. Una storia di settanta anni fa, 1946-1948, quando gli emiliani accolsero i bambini napoletani dopo la guerra». Le immagini in bianco e nero delle partenze dei ragazzini partenopei, pubblicate nella rivista insieme ai documenti dell’epoca, fino a sabato saranno esposte al Maschio Angioino di Napoli (il calendario di proiezioni, incontri e dibattiti sulla pagina facebook Accogliere Napoli).

PER I CATTOLICI c’era la carità e le parrocchie, per il comunisti c’era la solidarietà, i comitati di fabbrica e il collateralismo delle associazioni. Nel 1911 8mila operai dell’Ilva di Piombino e dell’Elba entrano in sciopero, resisteranno 135 giorni in condizioni durissime. I «figli dei serrati» vengono accolti da famiglie dell’Emilia, della Lombardia, dell’Umbria in segno di solidarietà. I bimbi sui treni intonano canti di lotta: «Quando vinta la battaglia / tutti insieme torneremo un altro inno canteremo / della santa libertà». Così comincia una lunga storia di accoglienza che avrà come tappa successiva quella degli orfani di Caporetto: a ottobre 1917 oltre 300mila veneti sono costretti a riparare più a Sud, verso l’Emilia Romagna, inclusi i minori rimasti senza famiglia.

Nel 1919 gli italiani apriranno le braccia ai «bimbi del nemico»: a Milano, Bologna, Reggio Emilia arrivano i ragazzini austriaci «condannati a morire di stenti per il cinismo dei vincitori non meno che per le ineluttabili conseguenze della guerra», come si legge nei giornali dell’epoca. L’onda nera è però dietro l’angolo. Come spiega Mirco Carrattieri, «nel giugno 1920 la pressione della stampa nazionalista ottiene la chiusura del programma viennese di affidi; e due anni dopo il governo fascista impugnerà l’accordo ufficiale tra i due stati». Durante il Ventennio sono i bambini ebrei a essere protetti dalle famiglie italiane. Nel dopoguerra il paese è a pezzi: come accade adesso nell’altra sponda del Mediterraneo, eravamo noi a emigrare, fame e malattie colpivano adulti e soprattutto i più piccoli, abbandonati in strada senza alcuna scolarizzazione. La solidarietà si attiva ancora: i cattolici hanno le loro strutture, il Pci mette in moto l’Udi, le amministrazioni e la rete di famiglie comuniste. I primi bambini ad arrivare in Emilia nell’autunno del 1945 provengono da Milano.

DOPO I RAGAZZINI milanesi sarà la volta dei laziali, in particolare da Cassino dove i combattimenti erano stati durissimi. A Natale del 1946 si avvia una campagna di aiuto per i bambini di Napoli. A dicembre sorge il Comitato presieduto da Giorgio Amendola. Il cardinale Ascalesi nega la propria collaborazione ma la macchina del Pci procede: nel 1947 12mila bimbi partenopei partono per il nord. Paola Nava ha raccolto le tracce delle famiglie di approdo: «Radichiero Otello, viale Muratori 225, accoglie un bimbo napoletano di 8 anni. Lavorava alle Officine Vismara-Carrozzerie Paderna e la cellula di fabbrica decide di accogliere un bambino del sud a totale carico degli operai che versavano ciascuno 15 lire al giorno». Dopo i napoletani, arriveranno i pugliesi e poi i bimbi del Polesine e da Reggio Calabria nel 1951; i terremotati dell’Irpinia del ’61 fino ai bimbi Sahrawi e di Chernobyl. Miriam Mafai ha definito questa esperienza come «una solidarietà possibile tra Nord e Sud». Oggi invece preferiamo il filo spinato.