Figlia della grande confusione politica che regna sotto il cielo afghano, la guerra infinita si è arricchita ieri – nel giorno della celebrazione della festa islamica dell’Eid al-Adha, il sacrificio di Abramo – di un nuovo capitolo.

E mentre Ashraf Ghani stava mandando al popolino il suo messaggio di «Eid Mubarak», a due giorni dalla richiesta del presidente afghano di una nuova tregua, i miliziani dello Stato Islamico hanno lanciato razzi sul palazzo presidenziale e sulla «zona verde» delle ambasciate nella capitale Kabul.

Arrivati in città con un paio di furgoncini, si sono nascosti nell’area vicina alla grande moschea di Eidgah e hanno iniziato a sparare: una trentina di razzi, che hanno colpito la zona del palazzo e quella dove si trova il quartier generale della Nato, l’ambasciata americana (e la nostra).

Poi hanno ingaggiato una battaglia durata tre ore che ha visto intervenire anche gli elicotteri da combattimento dell’esercito afghano a pochi giorni dall’ennesima prova di forza nella città di Ghazni: un attacco della guerriglia talebana durato cinque giorni. Quattro dei nove miliziani sono stati uccisi. Sei i feriti. In altre zone del Paese, invece, la festa e la preghiera non hanno registrato incidenti.

In attesa di avere un bilancio più preciso (come insegna la battaglia di Ghazni che dalle venti vittime civili iniziali ha visto salire il bilancio a 200-250 di cui molti uccisi dal fuoco amico dei raid statunitensi), qualche considerazione va fatta. Quando lunedì Ghani ha lanciato l’idea di una nuova tregua che, a partire dalla vigilia dell’Eid, avrebbe dovuto estendersi sino al 21 novembre (capodanno del Profeta) e quindi coprire il periodo elettorale, non molti avevano scommesso sull’adesione dei talebani anche se alcune fonti la davano per possibile.

L’idea del presidente è piuttosto sembrata l’atto di chi conta forse su un movimento guerrigliero disomogeneo da cui è lecito aspettarsi di tutto. Forse anche una spaccatura. Ma la decisione unilaterale, condizionata all’adesione talebana, si è rivelata alla fine una dimostrazione di debolezza: i talebani non hanno risposto, a pochi giorni dalla prova di forza di Ghazni dove hanno tenuto in scacco la città per quasi una settimana.

I razzi di Daesh sono stati la ciliegina sulla torta e la tregua di Eid el-Fitr di metà giugno scorso, durata tre giorni e figlia della pressione popolare pacifista che si va allargando nell’intero Paese, è rimasta una goccia nel mare quando gli americani – a sorpresa – hanno fatto sapere di essere pronti a colloqui diretti con i talebani.

Concordata o meno con Ghani, la mossa ha per forza spiazzato il governo di Kabul che ha sempre fatto dei negoziati interafghani un punto fermo. Gli americani hanno sparigliato le carte senza però prendere una posizione ufficiale chiara: con contatti più o meno segreti e aprendo un canale che non contempla la presenza del governo di Kabul né di rappresentanti pachistani. Con quale effetto? Quello di aumentare la confusione.

Lo si capisce dal messaggio per la festa dell’Eid al-Adha che mullah Akhundzada, il capo della shura di Quetta, ha appena scritto: «Eid-ul-Adha si avvicina mentre il nostro jihad contro l’occupazione americana è alle soglie della vittoria grazie ad Allah…Gli invasori infedeli hanno perso ogni volontà di combattere, la loro strategia è fallita… Gli arroganti generali americani sono stati costretti a piegarsi».

I talebani hanno in effetti appena ridicolizzato i militari a stelle e strisce, che si erano detti sicuri che la guerriglia non sarebbe più entrata nelle città. Inoltre, vorrebbero negoziare ma continuano i raid, come è successo a Ghazni, con case distrutte e famiglie decimate come denunciato dai residenti.

Se mai i talebani volessero aderire a una tregua, possono ora farlo da una posizione di forza anche se la prudenza è d’obbligo. La guerriglia non ha infatti alcun interesse a creare condizioni pacifiche per le elezioni di ottobre che si svolgeranno in questo quadro confuso e violento che già ha caratterizzato l’iscrizione alle liste elettorali.

Lo stesso quadro con cui Kabul andrà a Ginevra in settembre a chiedere altri soldi alla comunità internazionale. Con documenti, dice una fonte locale, che contengono esattamente le stesse richieste del 2001. Le stesse di 18 anni fa.