Poteva essere una sfida impossibile: un film di camorra, da una storia «realmente accaduta» intorno a Napoli. Ma Bruno Oliviero che l’ha raccolta è riuscito a entrare con delicatezza in una materia sensibile, come tutte quelle che mettono in gioco la vita di qualcuno, e trasformarla in narrazione. Tutto è vero perché tutto è esplicitamente messo in scena, luoghi, persone, accadimenti in una forma che non ne tradisce – nel suo continuo dichiararsi – la verità.

 

Nato a Casal di Principe – presentato in anteprima alla scorsa Mostra di Venezia – è per questo nel cinema (e serialità) del sud) che riposa sull’iconografia alla «Gomorra» un magnifico imprevisto. All’origine c’è un libro, Nato a Casal di Principe – Una storia sospesa di Amedeo Letizia e Paola Zanuttini (minimum fax), una storia alla «prima persona»di cui Letizia è protagonista oltreché narratore.

 

 

Ragazzo come tanti in un paese «regno» della camorra – imperversa il clan dei Casalesi – quale è Casal di Principe, sogna di andarsene, vuole fare l’attore a Roma tentando i provini per ilo cinema e la tivvù. . È perfetto, alle sue facce ci credono, sono convincenti forse perché sono un modo di stare al mondo lì dove è cresciuto?

 

E il provino  che apre il film è anche una dichiarazione poetica – e politica – delle immagini. Amedeo è un personaggio appunto – il bravo attore Alessio Lapice – non una «ricostruzione» arroccata dietro alla pretesa del vero, attraversa un vissuto e, al tempo stesso, esprime il sentimento di un conflitto, il paradosso di un quotidiano di ricatti, soprusi, omertà, violenza che dichiarano la presenza del regista e del cinema (il soggetto è di Letizia, insieme a Maurizio Braucci e Massimiliano Virigilio, questi ultimi autori della sceneggiatura).

 

Tutto comincia quando il fratello di Amedeo, Paolo, scompare, rapito dicono. La madre (Angela Finocchiaro) impazzisce, il padre (Massimiliano Gallo) è impotente, il cugino cerca vendetta. Lui lascia Roma – mentre lo chiamano per I ragazzi del muretto – e torna a casa. Che fine ha fatto Paolo uscito di casa per una serata con gli amici uguale a tante altre? Nessuno sa, nessuno ha visto. Le parole si mozzano in aria. Il padre è imprenditore, forse una vendetta, un «avvertimento», un pizzo non pagato? O non sarà che quel ragazzo, che voleva essere come «loro» ha fatto qualcosa che non doveva, ha infranto qualche regola, ha innervosito l’arrogante del gruppo?

 

Paura e servilismo sono più forti. Hanno le armi, hanno il potere, nessuno vuole finire ammazzato. Quello che arriva a Amedeo sono menzogne, silenzi, depistaggi, la «verità» non esiste e anche il nuovo giovane boss camorrista, con cui giocava insieme da ragazzino , sfugge, pretende di non sapere nulla, chiude ogni porta.
Nei fatti Paolo non ricomparirà mai più, oggi la famiglia non è riuscita ancora a sapere nulla, oltre il dolore atroce di perdere il figlio gli è stato negato anche il pianto del lutto. Il film si ferma però prima, a quei giorni e a un ragazzo di vent’anni che nella sua ricerca si scontra con un mondo dall’apparenza immutabile.

 

«Di questo film mi interessava la possibilità di un racconto diverso sul vivere in terre di Camorra. I personaggi non sono né eroi né criminali, hanno la sola colpa di essere nati in queste terre maledette. Ho raccontato una famiglia. Una storia di persone normali che si trovano troppo vicine a fatti di camorra gravissimi» dice Oliviero.

 

Alla retorica dell’azione con gli stereotipi ammiccanti che la corredano – e che sembra essere ormai il solo modo per parlare di camorra – Oliviero contrappone un allucinato «romanzo di formazione», una narrazione composta di frammenti (e sostenuta dal montaggio di Carlotta Cristiani) in cui si mescolano tracce del passato, l’angoscia del presente, quel tempo sospeso di un’attesa che non finisce, rimanendo sempre nello sguardo (e nella testa) del personaggio di Amedeo.

 

È attraverso di lui – figura chiave di chi viene messo fuoricampo anche nella rappresentazione – che ci restituisce la geografia di quei luoghi, tracciata con precisione più emozionale che sociologica, da documentarista che pratica il genere di cui sa cogliere gli spunti eccentrici per tradirne – come accade qui – le premesse. Cosa significa crescere, essere giovani in un posto così, come sfuggire al ricatto dei «miti», alla voglia di essere come tutti, alla fatica di sentirsi diversi?

 

Dentro alla storia collettiva c’è quella piccola, privata, fatta di rapporti familiari, il padre e il figlio, gli uomini – la mascolinità – e le donne, la logica del più forte che è sparare e vendicarsi, o invece non accettare tutto questo, opporsi alla «legge» per rimanere sé stessi? Ed è tra questi complicati equilibri che la realtà si afferma con forza, ponendoci quegli interrogativi che la cronaca mette da parte.