«Sono l’ultima moglie di Barbablù, quella che trasgredisce»: la frase di Marceline-Loridan Ivens che l’immagine ci rimanda con la chioma ricciuta davanti alla macchina da presa fa sul catalogo da controcampo – e da contro-copertina – al volto «ridisegnato» di Maya Deren, icona della 41esima edizione di Cinéma du Réel, il festival parigino del documentario che si è chiuso ieri. Due immagini che si parlano, che portano verso altre direzioni, quelle molteplici volute da Catherine Bizern nel comporre questa sua prima direzione del Festival, una scommessa riuscita e non solo per le sale sempre affollate – nonostante l’irruenza della primavera – gli ospiti, gli amici, le discussioni e le idee che hanno circolato nel Pompidou e negli altri luoghi del festival – Forum des Images, cinema Luminor – tra le visioni dei film in concorso e di quelli della retrospettiva, negli incontri di produttori e selezionatori di festival durante le due giornate di Paris Doc, gli atelier che presentano una selezione di film documentari in progress.

È SOPRATTUTTO il progetto nel suo insieme a apparire costruito in modo che ogni proposta, ogni lavoro anche quello più incerto o fragile o «mancante» abbia al suo interno un proprio spazio. Bizern insieme alla sua equipe ha messo al centro la «materia» della manifestazione: Cinéma du Reel, Cinema del Reale, e da lì ha avanzato le sue ipotesi, le ricerche, a partire appunto da una questione semplice e fondamentale al tempo stesso: cosa significa oggi «cinema del reale», quali sono le sue sfide, le sue forme, la sua politicità.

Le due belle sezioni retrospettive – Fabriquer le cinéma e Front(s) Populaire(s) – aprono ancora altre piste, smontano e rimontano le immagini, ne osservano il «potere», il sogno, la verità, il niente e il tutto, e nel legame tra passato e presente lasciano intravedere nuovi spiragli del racconto, di quel reale che può essere in un dettaglio minimo, nell’invenzione, nella distanza. E che di fronte alla continua moltiplicazione della sua immagine, o di una pretesa messinscena, è sempre più necessario guardare da vicino.

SUL SET di Rapporti di classe -Amerika di Daniele Huillet e Jean-Marie Straub (1986) Harun Farocki che ne è uno dei protagonisti, realizza Arbeiten zu Klassenverhältnisse (1985) (in Fabriquer le cinéma). All’epoca Straub e Huillet vivevano a casa sua per la preparazione di un film che doveva essere ambientato a Berlino, Rapporti di classe. Poi quando iniziano le prove per il film, Farocki viene coinvolto nel cast e così decide di proporre a un canale televisivo il «making» del film: «Allora si potevano realizzare ancora film d’arte e d’essai di quel tipo, oggi ne sono sicuro sarebbe impossibile. Ho ripreso le prove, e dopo qualcosa del set a Amburgo per mostrare le differenze tra le riprese e gli studi di preparazione» (intervista su «la revue 201», novembre 2008, dal catalogo del festival).

In una stanza Straub, elegantissimo è seduto a un tavolo, i due attori ripetono una battuta finché il ritmo, il respiro delle parole non corrisponda a quello che per lui e per Huillet viene dal testo di Kafka, Amerika. Huillet, seduta in terra dà il ciak con le mani. Gli attori dicono la stessa frase infinite volte, un battito di ciglia, il movimento del capo, una pausa troppo presto, troppo tardi.

DAVANTI alla macchina da presa – con Caroline Champetier e William Lubtchansky alla fotografia – ripetono ancora, la pellicola obbliga a serrare il materiale: «Quanti metri rimangono» chiede Straub. Un’altra, era buona, ma se ne fa comunque un’altra. Questo lavoro del cinema – o cinema al lavoro – è magnifico e commovente, e ci rivela cosa sia un film nella sua interezza: non la storia, o il soggetto, ma l’economia della produzione, il metodo di lavoro, che in Straub Huillet ha continuato a essere lo stesso film dopo film, fino all’esperienza italiana di Buti con Operai, contadini o Sicilia!: a partire dal testo, dal suo movimento per tradurlo nello spazio dei corpi, delle parole, per renderlo cinema, suono, e insieme racconto della Storia e del mondo, rappresentazione e invenzione, testo politico e poetico dei due artisti.

Ai bordi dell’immagine lascia i suoi protagonisti Mehdi Benallal nel suo Madame Baurés, preferisce lavorare sui luoghi che sono quelli del presente in contrasto alle parole – la voce off del regista – che ci riportano invece indietro nel tempo. Vincennes e Saint Madé, è lì che Madame Baurés ha vissuto le sue battaglie. A diciotto anni dichiara: «Sono comunista» e al padrone che in fabbrica le chiede di togliere il ritratto di Breznev dall’armadietto risponde che sì, lo farà ma solo quando la sua vicina avrà tolto il crocifisso.

La sua è un’esistenza in conflitto, donna non dovrebbe studiare eppure contro il volere della direttrice della scuola e di sua madre riesce a prendere il diploma a 14 anni. Poi gli Hlm, le case popolari, la fabbrica sin da giovanissima. Cosa rimane di quel vissuto, quali tracce, che il cineasta non trova e mentre filma viene obbligato a allontanarsi: «Chi vi ha dato il permesso?» «Avete le autorizzazioni?» È questo il nostro presente?
Il paesaggio è protagonista anche nel film che ha vinto il concorso internazionale, Movements of a Nearby Mountain di Sebastian Brameshuber, regista austriaco che ambienta questa sua terza opera in un garage di automobili nell’Erzberg, dove aveva già girato un corto, Of Stains, Scrap and Tires (2014) in 16 millimetri. Cliff, il personaggio di cui seguiamo il gesto quotidiano, è un meccanico nigeriano che ricicla vecchie automobili, le ripara e le rivende oppure ne ricava pezzi che mette ugualmente sul mercato. I suoi clienti arrivano dall’est Europa, in Africa invece Cliff manda soprattutto i pezzi di ricambio. 

Il film si dipana su una serie di ripetizioni, il lavoro, gli scambi, le contrattazioni, che narrano una economia, forse non quella delle finanze e delle multinazionali ma ciò che ne è ai margini e che pure è fortemente realtà attuale, mercato di costi e ricavi dove tutto ha un prezzo, anche quanto in apparenza da quello stesso mercato era fuori.

TUTTO COMINCIA da una vecchia fotografia di famiglia e dai molti silenzi che avvolgono il passato. In quell’immagine c’è una casa, bella, grande, immersa nella natura. Era da lì che veniva suo nonno, anche se il lessico famigliare ha sempre detto altro, o più che altro ha omesso preferendo dimenticare. Nelle lettere trovate tra ciò che il nonno ha lasciato c’è un elenco di oggetti, ciò che ha potuto portare con sé. La regista decide di partire, di scoprire in quel luogo lontano qualcosa che copra l’assenza delle omissioni: ma cosa?

La strada per le montagne, coprodruzione Francia/Italia è il primo lungometraggio di Micol Roubini – e uno dei due film italiani nel concorso internazionale, insieme a Shelter – Farewell to Eden di Enrico Masi – che finora aveva contaminato il suo lavoro di cineasta con quello di artista. Qui invece sceglie una direzione più «narrativa», nella lezione della prima persona – sua è la voce narrante – quasi diaristica che permette al tempo stesso di conquistare una distanza emozionale dagli eventi. La sua ricerca la porta, appunto, in Ucraina, nel piccolo villaggio di Jamna, a ovest.

LA CASA della fotografia forse non c’è più, distrutta negli anni sovietici per fare posto a altro, o forse è quel tetto che si intravede oltre la cinta del sanatorio, che è però insormontabile: guardata 24 ore da una sicurezza privata, pronti a spaccare la cinepresa se loro continuano a filmare. Ma a parte il vecchio partigiano con cui divengono amici, e un tassista un po’ trafficone che prova a farli passare di là dal recinto grazie alle conoscenze con le guardie, tutti al villaggio sembrano distanti, e persino infastiditi da questa mini troupe – alla macchina Davide Maldi – che fa strane domande, che va a toccare un passato di cui nessuno lì ha troppa voglia di parlare. O forse è lo scontro, anche se lontano da lì, tra ucraini e Russia, violento in quei giorni a complicare le cose?

IL NONNO della regista era fuggito durante la seconda guerra, era ebreo, aveva dunque cercato scampo dai nazisti? L’anziano partigiano ricorda quelle persone, gli ebrei, i polacchi, nascosti tra le rocce, disposti a cedere ogni bene per un nascondiglio: un tizio dice che la nonna aveva lasciato fuori di casa una donna col suo bambino… Aveva paura? Le frasi evitano, dicono che quelle persone vivevano secondo regole diverse. Ma cosa significa? Forse che gli ucraini hanno partecipato alla cacciata degli ebrei e di tutti gli altri? Che il sentimento di antisemitismo era già lì, radicato prima e dopo la guerra?

Roubini non pone le domande direttamente, preferisce che le contraddizioni affiorino tra gli imbarazzi, si mette in gioco lei stessa in questa narrazione collettiva che da ciascuna parte cerca una rappresentazione senza contrasti, sia essa familiare che di una comunità. Il suo film è quasi un thriller, un noir di boschi e case sfuggenti, volti che si girano dall’altra parte, minacce di cui non si conosce l’origine, che all’asserzione delle certezze predilige gli interrogativi.
Il paesaggio rimane muto e cosa ci sia oltre la siepe non è nemmeno importante saperlo, e non conta nemmeno vedere la casa: le immagini della regista ci hanno già portato oltre rivelando la fragilità della «memoria» e forse anche della storia in un presente rimasto impigliato in quella recinzione.