La guerra siriana non finisce qui, all’orizzonte del modesto villaggio di Al Barghouz, sull’Eufrate, dove le forze curdo-arabe hanno assediato l’ultima sacca di un califfato che a un certo punto controllava migliaia di chilometri quadrati a cavallo tra Iraq e Siria e la vita di quasi nove milioni di persone.

Al culmine della sua potenza ho potuto veder sventolare la bandiera nera a 15 chilometri dal centro di Damasco, a 70 da quello di Baghdad, a 40 minuti di auto dalla capitale curda irachena di Erbil. E nella roccaforte dei curdi siriani a Kobane, nell’ottobre 2014, il vessillo di Al Baghdadi era di fronte, dall’altra parte della strada. La guerra non finisce in questo lembo di terra siriana affacciata sul governatorato iracheno di Al Anbar – dove si stima ci siano ancora 5-7mila combattenti– per i seguenti motivi.

1) A Idlib e nel nord siriano ci sono ancora decine migliaia di jihadisti affiliati di Al Qaeda. La loro resa o collocazione è affidata all’accordo tra Russia, Turchia e Iran ma non c’è ancora niente di certo e di deciso.

2) Continua il conflitto tra curdi e Turchia. I curdi, considerati da Ankara «terroristi», chiedono una forza internazionale di interposizione mentre Erdogan, dopo un colloquio telefonico con Trump, insiste per ampliare la sua «fascia di sicurezza» dopo essersi impossessato del cantone curdo di Afrin: qui nelle scuole si insegna il turco e Ankara ha imposto la sua economia.

3) Permane il vero motivo strategico del conflitto che nel 2011, da rivolta popolare contro il regime alauita, si è trasformato in una guerra per procura contro l’influenza dell’Iran, l’alleato storico di Assad, con il coinvolgimento di Turchia, monarchie del Golfo e delle potenze occidentali che pur di abbattere il regime hanno sostenuto i jihadisti.

4) Israele, che gli Usa si ritirino o meno, continuerà i raid in Siria contro i pasdaran iraniani. Azioni militari che coinvolgono gli Hezbollah, alleati di Teheran in Libano. Gli israeliani sono stati investiti da Washington del ruolo di guardiani della regione mentre anche Putin, che ha contato sugli iraniani, deve arrivare a un accordo sia con l’Iran che con Netanyahu (l’incontro di Mosca tra russi e israeliani è saltato). Chi “tradirà” chi? Putin è il vincitore della guerra, insieme all’Iran e al regime di Assad, ma ha anche grandi interessi politici ed economici con Israele e le monarchie del Golfo: deve far fruttare, con la ricostruzione, una vittoria militare di prestigio ma assai costosa.

5) La fine territoriale dell’Isis non è la fine del jihadismo: continueranno azioni di guerriglia asimmetrica e l’insurrezione sunnita, tra Siria e Iraq, non è sepolta perché le rivendicazioni settarie restano sia in Siria che tra la minoranza sunnita dell’Iraq. Le stesse potenze arabe sono sempre pronte ad alimentarle. Come non è certo evaporata sulle rive dell’Eufrate l’ideologia dell’Isis che attirato tante reclute e si è diffusa con le sue affiliazioni ben oltre i confini del Medio Oriente, dall’Asia all’Africa.

Una delle poche certezze è che la ricostruzione della Siria costerà molto in termini umani ed economici: insieme a 500mila morti e milioni di profughi, sono circa 400 miliardi di dollari i danni stimati dall’Onu.

L’altra è che nessuno parla quasi più di transizione di Assad e sembra che le monarchie del Golfo si siano adattate a gestire la permanenza al potere del regime.

Un’altra certezza è che gli Stati uniti non sono riusciti a scaricare i foreign fighter del califfato a Francia, Gran Bretagna e Germania. Trump, per esercitare pressioni su questi Paesi a entrare in una coalizione anti-Iran, ha minacciato di liberarli se non se li riprenderanno indietro. Ma intanto Parigi e Londra hanno respinto la richiesta Usa di colmare il vuoto in Siria dopo l’eventuale ritiro che lascerebbe sul terreno 200 peacekeepers americani.

Pur colpita dagli attentati jihadisti e sempre sensibile ad antichi istinti coloniali, l’Europa stavolta sembra ritrarsi dalle sue responsabilità, ripiegata su stessa, impaurita dai ricatti di Trump e da quelli di Erdogan che si tiene in casa, ben pagato dall’Ue, tre milioni di profughi. Una questione si lega all’altra, una guerra si lega all’altra.

La fine dell’Isis, nel gioco degli specchi mediorientali, riflette il netto contorno di una sconfitta militare ma anche il destino tragico e precario di interi popoli e nazioni. Se qui pensiamo di fare gli spettatori senza pagare il biglietto, forse ci sbagliamo di grosso.