La figura è una Madonna con Bambino, e insieme una Pietà. Lei lo sorregge, ma anche lo ostende. I loro sguardi divergono: quello di lei invoca appunto pietà, quello di lui è sereno, curioso, forse divertito. In calce alla foto, quattro versi: «E molti di noi affondarono nei pressi / delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora. / Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero. / Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora». A fianco, una didascalia dal ritaglio stampa: «Rifugiati senza rifugio. Questa madre ebrea e il suo bambino sono stati ripescati dal mare insieme con 180 altre persone, che cercavano rifugio in Palestina. Ma 200 sono annegate quando il Salvador si sfracellò contro le coste rocciose della Turchia (…). A parte l’odissea dei 500 ebrei su una nave che fu rimandata di porto in porto per quattro mesi. Vengono da tutte le parti d’Europa, ammassati come bestie su carrette incapaci di tenere il mare(…). Le navi da carico e per il bestiame portano un carico nuovo, una nuova specie di contrabbando umano. (…) Il bambino può giocare con il suo piede – si senta a casa sua in braccio alla madre. Non sa che suo padre è annegato nel mare di Marmara. Solo la madre sa che la morte per annegamento in vista della costa è doppiamente atroce».
Non è cronaca di oggi, è la storia di sempre. È infatti la tavola 48, delle 69 che si susseguivano, nel 1955, nell’Abicì della guerra di Bertolt Brecht. Un testo che, a sua volta, a lungo dovette cercare approdo: ideato nel ’40 nell’esilio in Finlandia, alcune tavole escono in America, ma al ritorno in Germania viene rifiutato; nel ’54 l’Ufficio per la Letteratura della Repubblica Democratica ne deplora le «tendenze pacifiste», poi Brecht insignito del Premio Stalin si trova nell’interessante condizione di dover dare l’imprimatur al suo stesso testo; a quel punto decide di censurarne venti tavole (che vedranno la luce solo nell’85, e mancano tuttora dall’edizione italiana: frettolosamente riproposta da Einaudi nel 2002 dopo la bella princeps del ’72, con traduzione di Roberto Fertonani, tre anni dopo stravolta da Renato Solmi per renderla «immediatamente accessibile a un pubblico di giovani e di operai») e finalmente, l’anno dopo, il libro può uscire. Ma senza alcuna eco: e Brecht deve prendere atto (quarant’anni prima del Sebald della Storia naturale della distruzione) della «rimozione insensata», da parte dei lettori tedeschi, di «tutti i fatti e giudizi riguardanti il periodo hitleriano e la guerra».
Con sensibile ritardo – a più di dieci anni dalla pubblicazione in Spagna e in Francia – esce pure (per le cure non impeccabili di Francesco Agnellini e il package non accattivante di Mimesis, pp. 289, euro 22.00) Quando le immagini prendono posizione di Georges Didi-Huberman: primo di una serie, L’occhio della storia, di sei titoli usciti da Minuit, e che proprio al lavoro verbovisivo di Brecht è dedicato – a cavallo fra l’Abicì (Kriegsfibel), il monumentale Diario di lavoro (Arbeitsjournal, da Einaudi nel 1976 in due volumi) e i Modellbücher dei testi per il teatro. Si è scelto dunque un Virgilio proverbialmente scontroso, Didi-Huberman, per la sua svolta «politica»: che non a caso ha lasciato perplessi (non senza impazienze francamente eccessive) molti degli ammiratori (sfegatati e del pari troppo acritici, magari) dei suoi splendidi lavori anni ottanta e novanta (i quali a loro volta sono arrivati da noi con un buon quindicennio di ritardo: editorialmente non porta bene, a GDH, la divisa teorica dell’anacronismo cui da sempre è fedele). Ma, come nei suoi entusiasmanti pindarismi teorici non nasconde, e anzi valorizza, i conflitti di piani temporali, così nell’Œil de l’Histoire GDH non si sottrae, com’è giusto, ai dilemmi e alle vere e proprie aporie del pensiero, prima che dell’arte, di Brecht.
Questi aderisce infatti, nel ’50, al programma leninista (e alla prassi stalinista) della «pianificazione delle arti» in vista della «mobilitazione delle nuove masse di lettori»; e già negli appunti Sul realismo socialista faceva venire i brividi il suo elogio dell’«avveduta presa di posizione di Stalin rispetto a Majakovskij, che è un distruttore di forme di prim’ordine, e della sua interessante affermazione che i poeti dovrebbero essere gli ingegneri dell’anima» (ma questa posizione era già nelle frasi sprezzanti, rivolte a Benjamin a Svendborg, su Kafka che «ha visto il futuro, senza vedere che cosa è»: nel dopoguerra i comunisti francesi si chiederanno se non fosse il caso di bruciarlo, Kafka). Eppure è lo stesso Brecht che, nella Kriegsbibel e nell’Arbeitsjournal, sfida dadaisti e surrealisti sul loro stesso terreno (al punto che Ernst Bloch, in polemica con Lukács, poteva accostarlo oltre che a loro – da Brecht disprezzati in quanto dilettanti di ebbrezze e misticismi profani – anche a Proust e a Joyce – da Brecht invece apprezzato per aver «modificato la concezione del romanzo» –: tutti artefici dell’«epoca caleidoscopica»).
Ingrandendo le tavole da lui montate con l’aiuto della sua amante fotografa Ruth Berlau, e svolgendole come in una sequenza cinematografica – raddoppiando cioè, nella forma saggistica, il principio del montaggio che analizza – Didi-Huberman ci mostra come questo Brecht, davvero, si possa leggere meglio con Moholy-Nagy e Ejzenštejn, oltre che naturalmente con Benjamin, che con l’ortodossia neohegeliana. La verità è concreta – secondo il celebre motto vergato sulle tavole del suo studio – proprio in quanto conflittuale, contraddittoria, obliqua: il lettore della Kriegsfibel non «dispone della “verità”, ma vede piuttosto dei missili, frammenti, schianti di verità che si disperdono qui e là, nella “dis-posizione” delle immagini» (e sono acutissime le pagine di GDH sullo straniamento teorizzato e praticato da Brecht, nella sua forma più audace, proprio negli anni dell’esilio: «come se la sua posizione estetica sull’estraneità andasse di pari passo con la sua situazione poetica di esiliato, di straniero»).
Una forma, il montaggio, figlia della guerra. Non la seconda, di cui parla l’Abicì, bensì la prima (che dà una svolta al pensiero di Simmel, Freud, Warburg): irriducibile «presa d’atto del “disordine del mondo”» (secondo una splendida formula brechtiana), proprio il montaggio diventa «il metodo moderno per antonomasia». Così la maniera iconotestuale della Kriegsfibel può riassumere i modi contrastanti degli architesti specificamente germanici: da un lato il dadaista Deutschland, Deutschland über alles di Kurt Tucholsky e John Heartfield (da poco riproposto da Meltemi, a cura di Maurizio Guerri: ben ne ha scritto, qui, Giorgio Fabre), e ancor più da vicino il precedente Guerra alla guerra dell’anarchico Ernst Friedrich (che Brecht elogia nel ’26); ma anche, all’altro capo dello schieramento, il perturbante (e purtroppo formidabile) Ernst Jünger del Mondo mutato (sempre da Guerri restaurato per Mimesis), che sulle adunate naziste getta il suo solito sguardo gelido, minerale (stigmatizzandole, si capisce, ma da destra).
In questo modo le immagini prendono posizione: sia in senso ideologico che nell’architettura della pagina-campo di battaglia. E imprimono, alla carsica tradizione dell’iconotesto, quella natura intrinsecamente conflittuale che le è propria. Nel fotografare una storia tragica, prendono una forma tragica – ancorché modernisticamente tale, per via appunto di montaggio. E così davvero si può parlare dell’occhio della storia: «come si dice l’occhio del ciclone».