Nelle nostre sale è ormai da un settimana – ne avevamo parlato dallo scorso Festival di Cannes dove era in concorso – ma quello che sorprende è l’enfasi di giudizio che vi si è scatenata intorno: si ama o si odia, critici, cinefili, spettatori, commenti più o meno lunghi sui social oscillano tutti tra questi due poli nettamente contrapposti. È stato così sin dalla prima proiezione sulla Croisette col pubblico che si è spellato le mani felice di commuoversi nelle poltrone rosse del Palais mentre Nadine Labaki saliva sul palco insieme al piccolo protagonista, Zain al-Rafeea, «vero» profugo siriano la cui vita reale sborda in quella del suo personaggio, a ricevere il premio della giuria. Un entusiasmo a cui facevano da contrappunto reazioni invece assai negative. C’è da stupirsi? Cafarnao è uno di quei film che contiene in sé – come un dna digitale – questo dualismo a partire dall’immagine, sempre molto efficace, della vittima che permette di accarezzare i sentimenti del presente, di far sentire tutti buoni – e dunque assolti – nelle lacrime spese di fronte alle sue sventure. E senza pericolo né antagonismo a questo ordine sociale, politico, economico di cui anzi la stessa vittima è espressione e parte. Addirittura un anno dopo sappiamo che il piccolo protagonista vive oggi in Norvegia e grazie al film – Labaki si ritaglia il ruolo di una salvifica avvocato dei diritti umani – ha imparato a leggere e a scrivere. La cause del suo disagio – per usare un eufemismo – non sono neppure considerate.

SIN DAL TITOLO, Capharnaum – ben tradotto dalla distribuzione italiana, la Lucky Red, con Caos e miracoli – Labaki ci dice dove siamo: nel caos, appunto, come indica la parola francese alludendo anche a una antica e scomparsa città della Galilea nella quale le prediche di Gesù avevano attirato folle di dotti e di curiosi. Da Beirut, dove il film si svolge, la lente si allarga a tutto il Medioriente, al «caos» dei suoi confini e delle sue guerre. Ci sono i profughi in fuga dalla Siria distrutta da anni di conflitto, forse nel passato sarebbero stati i profughi palestinesi, ormai dimenticati perché non più profughi ma stanziali seppure sempre profughi, da cinquant’anni nel Libano che non gli ha mai riconosciuto la cittadinanza – e con essa tutti i diritti fondamentali per una condizione di sopravvivenza decente. Interessa a qualcuno nonostante l’indignazione di facciata?

Zain vive nella miseria insieme a centinaia di altri profughi come lui. La sua è una famiglia numerosa, come un Pollicino dei nostri tempi, venduto insieme ai fratellini alla «strega» perché i figli nella povertà del capitalismo sono da sempre un reddito. Così nessuno di loro va a scuola ma mendicano in strada, l’amata sorellina viene ceduta per una manciata di soldi a un vecchio, è appena una bambina, la stuprerà fino a ammazzarla. Eppure la madre di Zain continua a fare figli, un capitale variabile.

IL RAGAZZINO si ribella, fugge e denuncia i suoi genitori per averlo messo al mondo e condannato a una esistenza insopportabile. Sul suo cammino, nelle strade ciniche di Beirut, incrocia una donna etiope, anche lei «clandestina» e il suo bambino di due anni, Yonas (Boluwatife Treasure Bankolelo) uniche figure di umanità e di affetto tra i mercanti di esseri umani, di corpi divenuti merce perché solo bene che si possiede. Zain è bello, ha lo sguardo di un adulto nonostante i suoi dodici anni, Labaki – al terzo film – con la macchina a spalla lo segue mentre arranca in quel mondo disumano insieme al piccolino. Dei ragazzini filma fame, sporcizia, lacrime, moccio.

E poi? Quello che è il punto di partenza, l’infanzia che prende la parola contro gli adulti – e il sistema che mettono in atto – sfuma nel sentimento ricattatorio dei bimbi e della loro sofferenza sovraesposti sullo schermo. Il resto non conta, mettere in discussione interrogare e interrogarsi: vale solo lo shock, il pugno allo stomaco, e per forzare il pathos si possono persino torturare – come nella «realtà – i due piccoli sullo schermo, negargli ancora una volta la parola e renderli strumento.
È la strada più semplice, e quella più indecente: si offre ciò che si vuole vedere, come si vuole vedere, il mondo «brutto e cattivo», coccolando lo spettatore persino con un happy end. Guai a turbare la serenità.