Il dolore muto di Anwar Ghandur contrasta con il clamore e lo sdegno che ha ‎suscitato nel mondo la morte della figlioletta di otto mesi, Leila, soffocata lunedì ‎dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani. Sotto la tenda del lutto nel ‎quartiere di Zeitun, a Gaza city, siedono parenti e amici. Si alzano tutti in piedi per ‎stringere la mano a chi porta vicinanza e condoglianze. Un ragazzo serve ai ‎presenti caffè amaro. Anwar ha 27 anni e il volto di un adolescente. Sua moglie ‎Maryam ne ha appena 19. ‎«È stato un colpo duro, per me e soprattutto per mia ‎moglie» dice ‎«già un anno fa avevamo perduto il nostro primo bimbo, Salim, di ‎un anno. La sera si era addormentato tranquillo ma non si è più svegliato, è morto ‎nel sonno». Arrivano altre persone, tra queste Jamal Khudari, fino a qualche anno ‎fa presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza. Anwar va a salutarlo. Una ‎stretta di mano veloce, Khudari sussurra qualche parola di conforto. Il giovane ‎padre torna da noi. ‎«Maryam aveva ritrovato la serenità quando ha partorito Leila. ‎Abbiamo perduto anche lei e mia moglie è devastata». La giovane mamma resta in ‎casa, non solo per la tradizione che separa i sessi nelle occasioni pubbliche di ‎lutto. Semplicemente non ce la fa a parlare, ci spiega Anwar.

‎ Sui social infuria lo scontro ‎tra chi denuncia l’orribile morte di una bimba a ‎causa dei lacrimogeni e chi difende Israele sempre e comunque, contro ogni ‎evidenza, non mancando di accusare i Ghandur di imprudenza se non addirittura ‎di aver lucidamente portato la figlia fino alle barriere di demarcazione, sotto il ‎fuoco dei soldati isreliani e nel fumo dei lacrimogeni per provocarne la morte e ‎mettere sotto accusa Israele. Anwar non sa di questa insana battaglia in internet. Le ‎ultime ore le ha passate a piangere Leila e a confortare la moglie. ‎«La mia bimba ‎era molto lontana dalle barriere» ci racconta ‎«era con la mamma, la nonna e la zia ‎in una tenda (ad est di Shajayie,ndr) dell’accampamento». Tutto è accaduto in ‎pochi attimi. ‎«Mia moglie – prosegue – mi ha detto che ad un certo punto sopra ed ‎intorno alla tenda sono caduti diversi candelotti lacrimogeni sganciati da un drone ‎israeliano. La tenda è stata avvolta in una nuvola di fumo, sono scappate ma Leila ‎nel frattempo aveva inalato molto gas. Ha perduto i sensi subito, all’ospedale è ‎arrivata morta». Per Israele e la descrizione che ne danno molti mezzi ‎d’informazione gli accampamenti di tende eretti per la “Grande Marcia del ‎Ritorno” cominciata il 30 marzo nella fascia orientale di Gaza non sarebbero altro ‎che delle “basi di lancio” di attacchi alle barriere e di preparazione di attentati. ‎Piuttosto sono punti di riunione per migliaia di civili, per le famiglie, situati a ‎parecchie centinaia di metri dalle recinzioni. In alcuni di essi spesso organizzati ‎momenti di intrattenimento e dibattiti.

Ciò che non viene riferito a sufficienza è ‎che l’esercito israeliano ha a disposizione nuovi “mezzi di dispersione” delle ‎manifestazioni, come i cannoncini che sparano in pochi secondi decine di ‎candelotti a grande distanza e anche droni che dall’alto sganciano i lacrimogeni ‎sui ‎manifestanti che si avvicinano alle barriere e anche su quelli fermi molto più ‎indietro. Proprio i lacrimogeni sparati da un drone hanno provocato la morte di ‎Leila, secondo il racconto che ci ha fatto il padre. Le autorità di Gaza hanno aperto ‎una indagine per accertare le cause della morte della bimba. Così come quella di ‎altri otto ragazzi, con meno di 16 anni, che figurano tra le 60 vittime della strage di ‎lunedì.‎

‎ L’accampamento di Abu Safieh a Est di Jabaliya ieri ha cominciato ad ‎affollarsi dopo le 15. E così tutti gli altri lungo la fascia orientale di Gaza. Si ‎diceva che dopo il massacro avvenuto il giorno prima, i palestinesi sarebbero ‎rimasti a casa, per paura e per il lutto. Ma il 15 maggio, il giorno della Nakba, la ‎‎”catastrofe” del 1948 e i suoi profughi ancora in esilio e ai quali Israele non ‎permette il ritorno, sono motivi che più di altri spingono i palestinesi in qualsiasi ‎punto del pianeta a ricordare e a protestare. ‎«Gli israeliani dovranno ucciderci tutti ‎ma non ci arrendiamo, non ci faranno dimenticare i nostri diritti», ci dice Husan al ‎Sheikh, parente di una delle vittime di lunedì. ‎«Siamo qui per dire che non ‎accetteremo un’altra Nakba», aggiunge. Il fuoco dei soldati israeliani ieri ha fatto ‎nuove vittime: un uomo di 51 anni e un giovane. I feriti sono stati oltre 250.

‎ Ghassan Abu Sitta è un chirurgo ortopedico di origine palestinese che lavora ‎nel più prestigioso e meglio attrezzato degli ospedali libanesi, quello che fa capo ‎all’università americana. A fine mese guadagna quanto gli stipendi messi insieme ‎di una dozzina di colleghi di Gaza. Però non dimentica la sua terra e tutte le volte ‎che può corre a Gaza da volontario. ‎«Questa è la mia gente, ogni palestinese ha il ‎dovere di dare un contributo, siamo ad un momento di svolta. Israele e gli Usa ‎vogliono cancellare la questione palestinese». In questi giorni Abu Sitta è ‎impegnato all’ospedale al Awda nel nord di Gaza. ‎«L’afflusso di feriti è ‎incessante» ci dice il chirurgo ‎«e il tipo di ferite mi sconvolge, perché questi ‎proiettili si spezzano quando entrano nel corpo e i frammenti corrono verso punti ‎diversi distruggendo vasi sanguigni, muscoli, ossa. Ad un paziente ho estretto ‎pezzi di uno stesso proettile nelle gambe, nei genitali e nell’addome. Con i miei ‎colleghi facciamo il possibile ma tanti di questi feriti saranno disabili per sempre». ‎Mentre torniamo verso Gaza city, scorgiamo nelle strade più affollate alcuni ‎giovani con una gamba fasciata che avanzano lentamente aiutondosi con le ‎stampelle. Altri con un braccio fasciato e legato al collo. Ne contiamo nove fino ‎all’arrivo. Sono solo una frazione delle migliaia di feriti di queste ultime ‎settimane. I funerali che ieri hanno attraversato Gaza si sono portati via per sempre ‎di giovani e ragazzi, i disabili ci ricorderanno per anni l’orrore di questi giorni. ‎