Un giorno di tempesta al termine del quale le posizioni tornano quelle di partenza. La lista di Pietro Grasso farà l’accordo con il Pd per sostenere Nicola Zingaretti alle regionali del Lazio e non sosterrà invece Giorgio Gori alle regionali della Lombardia. Una soluzione a metà che può sembrare incoerente e che però consente a Liberi e Uguali di sfuggire all’accusa di ostilità preconcetta, ma anche di tenere il punto sulla priorità ai programmi: quello di Gori è in continuità con Maroni fin dallo slogan: «Fare, meglio». La decisione finale arriverà oggi nelle due assemblee regionali convocate a Roma e a Milano (Cinisello Balsamo). Alle quali non a caso parteciperanno i due dirigenti nazionali con le idee più chiare: a Roma lo stesso Grasso, favorevole all’intesa, a Milano il numero uno di Sel Fratoianni che invece avrebbe volentieri rotto ovunque. Fosse stato il vecchio Pci questa scelta sarebbe stata il preludio a decisioni opposte, dal momento che toccava sempre al dirigente meno allineato difendere una scelta difficile. Ma LeU evidentemente non è il vecchio Pci.

Eppure resta sensibile ai richiami a non dividersi dei padri nobili, come quelli di Prodi e Veltroni raccolti da Repubblica. O – anche di più – della segretaria della Cgil Camusso che invita LeU a «cogliere l’opportunità di una candidatura unitaria» nel Lazio come in Lombardia. Invito poi amplificato da un appello di dirigenti Cgil (più di area Pd che LeU) a «verificare le possibili convergenze». Segnale della preoccupazione del sindacato di non legarsi solo a una lista destinata a una battaglia di testimonianza, specie nelle due regioni chiave per le vertenze di lavoro.

Il peso di queste pressioni si è sentito nelle prime dichiarazioni di ieri. Bersani ha risposto in maniera interlocutoria a chi gli chiedeva della Lombardia e di Gori: «Stiamo lavorando faremo di tutto». Anche se poi ha precisato che «non si può fare un’ammucchiata contro la destra o un accordo di gruppi dirigenti». L’apertura è comunque parsa eccessiva all’ala sinistra di LeU, tantopiù che in Lombardia c’è già il candidato che la lista intende contrapporre a Gori: Onorio Rosati. A peggiorar e le cose un post del governatore toscano Enrico Rossi, tra i fondatori di LeU ma anche presidente di una giunta con il Pd, secondo il quale l’accordo con Zingaretti «uomo di sinistra» non è in discussione, con Gori «è opportuno aprire un confronto» e in Campania «dobbiamo chiedere umilmente a Bassolino di candidarsi». Tre «contributi alla discussione», tre cazzotti nella pancia di Sinistra italiana (e nel caso di Bassolino, ai suoi tentativi di coinvolgere De Magistris). Dalla quale arrivano risposte dure: «Rossi continua a usare l’argomento del fronte contro le destra, ma si vince con la discontinuità non con il frontismo», dice Paolo Cento.
Se Grasso si limita a rinviare la decisione alle assemblee locali, «siamo un soggetto politico plurale, è normale che ci siano posizioni diverse», la lista balla al punto che torna a circolare l’ipotesi estrema di togliere il simbolo dalle regionali, per concentrarsi sulle politiche e lasciare liberi Mdp, Possibile e Sinistra italiana di seguire il cuore in Lazio e Lombardia. Sarebbe stato come certificare la fine del soggetto unico prima ancora di convocare il congresso fondativo. E infatti una riunione nel pomeriggio dei rappresentanti delle tre componenti con Grasso rattoppa le divisioni.

Si arriva così alla decisione di separare i destini di Lazio e Lombardia (naturalmente, affidando la scelta finale alle assemblee). In questo modo si fa accettare anche a Si l’appoggio a Zingaretti, all’inizio escluso (per non dire di Possibile dove Civati insiste che il no al Pd «dovrebbe valere in entrambi i casi»). Del resto il caso Gori è effettivamente difficile da maneggiare anche per i più disponibili all’appeasement. Mdp sedeva al tavolo lombardo con il Pd, ma lo aveva abbandonato dopo il rifiuto del candidato di sottoporsi alle primarie. E in quella alleanza c’è ancora Campo progressista di Piaspia che con Sì non ha esattamente buoni rapporti. Il profilo di Gori poi è quello del renziano di ritorno (dopo un breve allontanamento) e già domenica sarà proprio il segretario del Pd a lanciarne la campagna elettorale a Milano.
Inevitabile la conclusione: due regioni, due scelte diverse. E nessuno che nemmeno si preoccupi di rispondere al candidato Pd del Molise che, anche lui, prova inascoltato a rilanciare l’appello di Prodi e Veltroni: in fondo anche in quella regione si vota il 4 marzo.