L’Ottocento volge al termine e nelle terre dell’impero zarista le comunità ebraiche sono in allarme. Sugli shtetl come sui quartieri ebraici delle grandi città delle odierne Ucraina, Polonia e Russia si abbattono la violenza dell’antisemitismo quando non veri e propri pogrom. In molti scelgono di partire alla volta dell’America della Palestina o di qualche metropoli europea. Gli uomini sono i primi, se ne vanno con la promessa di farsi raggiungere dalle famiglie, ma talvolta approfittano della situazione per abbandonare mogli e figli. Ed è questo il destino di Mende Speismann dopo che suo marito, Zvi Meir Speismann, uno strambo venditore ambulante fugge a Minsk. Sulle sue tracce si metterà però Fanny, la sorella minore di Mende, che da ragazza si era preparata a diventare una «shochetet», una macellaia rituale, mestiere abitualmente riservato ai maschi. Ed è proprio attraverso le avventure di Fanny che Yaniv Iczkovits ricostruisce con malinconica ironia in Tikkun o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny (Neri Pozza, pp. 492, euro 19) l’epopea del mondo perduto dell’ebraismo dell’Europa orientale, proponendo allo stesso tempo una lettura della cultura ebraica che interroga più o meno esplicitamente l’odierna realtà israeliana.

Nato a Rishon Letzion nel 1975, già autore di tre romanzi, Giuntina ha pubblicato nel 2010 Batticuore, Iczkovits è una delle figure emergenti della letteratura israeliana e un protagonista del dibattito pubblico nel paese. In questi giorni è stato tra gli ospiti del Festival della Letteratura di Viaggio che si concluderà domani a Roma.

Un romanzo ambientato durante l’impero zarista, mentre fioriva la cultura ebraica ma si moltiplicavano i pogrom. Come è nata l’idea?
Posso offrire diverse spiegazioni al riguardo. Sono da sempre interessato alla cultura ebraica e yiddish del XIX secolo. Consultando i giornali ebraici dell’epoca, come Hamagid o Hamelitz mi sono imbattuto nelle lettere di giovani donne che chiedevano aiuto alla comunità perché i loro mariti le avevano abbandonate. Quando le ho lette, ho capito che avrei voluto riscrivere a modo mio una di queste storie: volevo aiutare una di loro a ritrovare il marito e volevo che a farlo fosse un’altra donna. Per questa via volevo scardinare i meccanismi che fanno sì che oggi come allora alle donne siano imposti, in un mondo largamente dominato dai maschi, dei ruoli precostituiti. Al contrario, i miei personaggi, a partire da Fanny, lottano ogni giorno per fare le loro scelte indipendentemente e spesso contro i dettami sociali. Nel libro, il riferimento al «Tikkun», il termine ebraico che definisce «la riparazione delle cose» che ogni ebreo è impegnato a realizzare, assume proprio questo significato: Fanny lo fa aiutando la sorella, noi tutti, intendo noi israeliani, dovremmo farlo cercando una vera soluzione di pace al conflitto con i palestinesi.

La storia di Fanny si trasforma anche nella cronaca di un’epoca, che malgrado abbia annunciato le tragedie del Novecento, segnò il momento più alto dell’ebraismo europeo. Voleva dare voce a tutto ciò?
Senza dubbio. Ma voglio rispondere partendo dal caso della mia famiglia, nella quale si è sempre percepito una sorta di contrasto tra la grande storia ebraica europea, compresa l’orrenda fine di quella civiltà durante la Seconda guerra mondiale, e ciò che è avvenuto dopo il 1948, in Israele. Cinque dei fratelli di mio nonno furono uccisi ad Auschwitz, eppure parlando sia con lui che con i mie zii sopravvissuti all’Olocausto mi sono reso conto di quanto mancassero loro alcuni aspetti delle vite che conducevano prima di arrivare in Israele. Questo perché in realtà qui non c’è spazio per la cultura ebraica europea visto che il paese si è costruito sull’idea che in Europa gli ebrei erano condannati alla sofferenza e che solo Israele poteva rappresentare la loro salvezza. Solo che gli ebrei hanno vissuto in Europa e in altri luoghi per migliaia di anni. È possibile immaginare le nostre vite qui e ora senza tener conto della cultura ebraica che si è sviluppata in Europa e in Nord Africa? Per questo ho voluto ricordare a tutti da dove veniamo e cosa questo significhi ancora oggi .

 

Lo scrittore israeliano Yaniv Iczkovits

 

Una vicenda della fine dell’Ottocento finisce così per interrogare il presente?
In quel tempo gli ebrei erano una minoranza che viveva nel cuore di nazioni cristiane attraversate dal nazionalismo. L’antisemitismo aveva un largo seguito popolare e in molte regioni gli ebrei vivevano confinati o segregati. Guardando a quell’epoca ci possono essere due reazioni. Si può dire, ok, tutti ci odiano, perciò se avremo un nostro paese, nessuno ci potrà fare più del male. O, al contrario, si può concludere che quando eravamo una minoranza abbiamo sofferto molto, ma quando avremo un «nostro paese» faremo sì che altre minoranze si sentano invece bene, e «a casa». A questo punto, pongo ai lettori un quesito: quale di queste impostazioni è dominante oggi in Israele?

L’umorismo ha un ruolo centrale nel romanzo. Si tratta di un elemento della tradizione ebraica meno evidente però nella letteratura israeliana, perlomeno fino alle «nuove leve», come lei e Etgar Keret. Qualcosa sta cambiando?
Puoi reprimere la tua cultura finché vuoi, ma la verità è che per oltre duemila anni gli ebrei non sono stati soldati, ufficiali o imprenditori dell’hi-tech. La maggior parte di loro viveva negli shtetl e usava altre strategie per difendersi, come l’umorismo, gli scambi con i loro vicini e il fatto di non prendere tutto troppo sul serio. Non a caso, lo scrittore Isaac Bashevis Singer sosteneva che l’yiddish non è la lingua della vittoria, bensì della vita quotidiana, dell’umorismo, del prendere in qualche modo la vita così come viene. Tutti elementi che invece in Israele sono andati perduti: qui la vita è talmente complicata e intensa che non rimane abbastanza ossigeno per una sana ironia. Eppure, anche questo è un elemento che ho respirato in famiglia, fin da piccolo. Ricordo ancora che mio zio, sopravvissuto all’Olocausto, un giorno comprò a me e mia sorella un gelato, lo assaggiò e sputò per terra dicendo: «Accidenti, abbiamo superato ogni orrore per arrivare qui dall’Europa e non sappiamo fare nemmeno un gelato decente!». Si rideva di tutto, è questo il clima nel quale sono cresciuto.

In «Batticuore» lei ha raccontato attraverso la vicenda di Yudit, una donna il cui figlio viene mandato a combattere nei Territori occupati e solo allora «scopre» in qualche modo l’esistenza dei palestinesi, l’apatia e il conformismo della società israeliana che scivola verso un nazionalismo sempre più brutale.
Da anni i nostri leader politici cercano di convincerci che i palestinesi non vogliono in nessun caso la pace. Perciò, non dobbiamo solo confrontarci con questo nazionalismo estremo, ma anche con il fatto che si cerca di legittimarlo con una sorta «di superiorità morale» e perfino religiosa. La maggior parte degli israeliani ti dirà: certo che vogliamo la pace e forse potremmo perfino rinunciare ai Territori occupati, ma di fronte non abbiamo nessuno con cui parlare, quindi non c’è soluzione. E perché non ci sarebbe nessuno con cui parlare? Perché i palestinesi hanno una cultura diversa? Perché capiscono solo i rapporti di forza? E quindi dobbiamo essere forti, abbiamo l’obbligo morale di avere un tale esercito e reagire come facciamo noi? Oggi è su queste basi, false e create ad arte dai nostri governanti che cresce l’apatia, quasi la situazione non potesse cambiare. Inoltre, l’occupazione non interferisce con le vite quotidiane degli israeliani, e perciò in molti sono disposti a girarsi dall’altra parte.

Nel 2002, durante la Seconda Intifada, come paracadutista lei ha firmato, insieme ad altri soldati, una lettera in cui si annunciava il rifiuto ad essere impiegati nei Territori occupati. Per questo ha scontato 30 giorni di prigione e ha raccolto il sostegno del movimento dei «refusenik», all’epoca molto attivo. Oggi, invece, le voci che si levano contro la politica del governo sono rare.
Ho scritto e firmato insieme ad altri quella lettera perché non potevo eseguire quegli ordini e vedere come vengono trattati i palestinesi senza reagire. In quel periodo c’era un movimento di opposizione molto forte, ma oggi la situazione è diversa. Anche se le cose sono più complicate di quanto sembra. All’estero si pensa che gli israeliani votino a destra o a sinistra a causa della loro opinione sui palestinesi, ma questo è vero solo in parte. In realtà le persone sono mosse soprattutto dalla propria condizione sociale. Molti identificano la sinistra con l’élite, mentre la destra cresce nelle aree periferiche. Quanto al futuro, credo ci sia solo una cosa che può cambiare l’orizzonte politico di Israele: una nuova alleanza tra la sinistra e gli arabo-israeliani, che rappresentano il 20% della popolazione, per sconfiggere la destra e i partiti religiosi e immaginare un nuovo futuro di pace e giustizia con i palestinesi.