Che sia per la via del golpe o per quella di una sempre più asfittica democrazia rappresentativa, la destra si sta riprendendo un po’ per volta l’America Latina: domenica è stato il turno del Cile, dove il miliardario Sebastián Piñera, già presidente dal 2010 al 2014, ha riportato una vittoria molto più netta del previsto (54, 6% contro 45,4%) sul candidato di centro sinistra Alejandro Guillier.

SPECULATORE FINANZIARIO più che vero imprenditore – abile a muoversi sulla frontiera dell’illegalità, come indicano le numerose denunce di corruzione e di evasione fiscale a suo carico – Piñera ha saputo far tesoro del cospicuo capitale di voti su cui conta la destra post-pinochetista, giovandosi dell’intero bottino di preferenze (l’8% dei suffragi) offertogli «senza condizioni» dal candidato di estrema destra José Antonio Kast. Ed è riuscito a convincere parte degli elettori moderati, chissà se intimoriti dall’inverosimile spauracchio del «Chilezuela» agitato prima delle elezioni, dal rischio cioè di una «deriva venezuelana» conseguente a un eventuale appoggio al centro-sinistra da parte del Frente Amplio, divenuto la terza forza politica con il 20% dei voti.

UN APPOGGIO che invece è mancato, almeno nella misura in cui sarebbe servito ad Alejandro Guiller: benché Beatriz Sánchez e gli altri dirigenti più in vista, come Gabriel Boric e Giorgio Jackson, i leader delle proteste studentesche del 2011, avessero, a titolo personale, annunciato di votare per lui ma solo per impedire a Piñera di governare «insieme a Kast» – e confermando la scelta di restare all’opposizione indipendentemente da chi avesse vinto -, una parte consistente degli elettori del Frente ha deciso di ingrossare le fila del sempre più forte partito dell’astensione, superiore al 50%, ritenendo che la nuova forza politica di sinistra possa legittimarsi come una valida alternativa politica solo sulle ceneri della Nueva Mayoría di centro-sinistra.

A LIVELLO DI BASE la logica del male minore non ha prevalso sulla convinzione che Piñera e Guiller siano in realtà «la stessa cosa», in quanto entrambi «al servizio del capitale transnazionale» ed espressione di una plutocrazia i cui profitti non hanno fatto che crescere negli ultimi 25 anni, come evidenziato con particolare vigore dal popolo mapuche, a cui hanno fatto la guerra tanto l’uno quanto l’altro schieramento. In tanti pensano che con la destra al potere, cambierà poco o niente rispetto al modello di paese edificato dal regime di Pinochet nel segno del capitalismo più estremo e mantenuto in vita da tutti i governi successivi.

E NEPPURE HA FUNZIONATO l’esempio dell’Argentina, dove il rifiuto di parte della sinistra di votare il moderatissimo Daniel Scioli in sostituzione di Cristina Kirchner ha aperto la via, secondo il sociologo Atilio Borón, all’«olocausto sociale» portato avanti da Macri. O quello rappresentato dal Brasile, dove, evidenzia ancora Borón, quelle «minime differenze» che si diceva esistessero tra il governo e la destra appaiono ora, dopo la destituzione di Rousseff, in tutta la loro tragica portata. Il nodo da sciogliere per i movimenti popolari è sempre lo stesso: scegliere il male minore contro uno più grave o voltare le spalle alla politica istituzionale per concentrare le proprie energie in un ambito «in basso e fuori» dal sistema, mirando a modificare l’equilibrio del mondo con la moltiplicazione delle crepe, piccole e grandi, nel tessuto del dominio capitalista.