Tutti ricordano la scena ma dimenticano il “film” di cui essa è parte. La scena – siamo alla fine della campagna presidenziale del 2008 – è quella di John McCain impegnato in uno in un incontro formato “town hall meeting”: il candidato dialoga con i suoi sostenitori.

Una sostenitrice blatera che non c’è da fidarsi di Barack Obama, l’avversario democratico del candidato repubblicano. È «arabo», dice e insiste, McCain non la lascia finire, le strappa il microfono e replica: «No, signora, è un padre di famiglia e cittadino rispettabile, con il quale mi trovo a essere in disaccordo su questioni fondamentali, ed è questo il punto centrale della campagna elettorale». Persona rispettabile, e dunque «non arabo»? Non è una smentita, né coraggiosa né politicamente corretta, mentre impazza la tiritera di Barack Hussein Obama, ma ora tutti ricordano quell’episodio come l’emblema di un’irrinunciabile signorilità verso gli avversari politici.

Per di più quella scena era parte di un “film”. Che passa sotto silenzio in queste ore in cui si esalta la figura del senatore dell’Arizona morto sabato scorso in seguito a una forma aggressiva di tumore. Il “film” è quello di una campagna elettorale avvelenata, nella quale la delegittimazione di Obama si basa su diverse fake news – ma allora non si diceva ancora così perché erano i media mainstream a diffonderle e a dilatarle – riguardante la negazione della sua nascita in terra americana, con l’aggiunta della sua appartenenza alla religione islamica, e la frequentazione di un predicatore nero accusato di antisemitismo. A dare il tono della campagna di McCain è la sua “vice” nel ticket, la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, la star del tea party e della destra religiosa più integralista. E a rifornire di soldi la campagna dei “birther” – quelli che negano la nascita di Obama a Honolulu – è Donald Trump.

Se si rievoca quel “film” è per collocare nella giusta dimensione politica la sua figura, senza per questo negarne i tratti di personaggio controcorrente e anticonformista. Da questo punto di vista, vale la pena ricordare un aspetto poco o per nulla citato in questi giorni, il commosso omaggio reso da McCain – lui anticomunista viscerale – a un volontario della Abraham Lincoln Brigade nella guerra di Spagna, Delmer Berg, morto centenario nel 2014. McCain esalta la figura di questo eroico «comunista» in un bellissimo necrologio sul New York Times, «Salute to a Communist», che è anche un aperto riconoscimento al ruolo dei comunisti nella lotta contro i franchisti.

Politico di lungo corso, McCain riempie oggi le pagine dei giornali per questi suoi tratti personali, esaltati dalla contrapposizione con quelli di Donald Trump, più che per il suo lascito di protagonista di passaggi cruciali della storia recente degli Stati Uniti. Così colpisce il suo voto contrario – dato mentre era in corso la sua terribile malattia – per impedire a Trump di manomettere la riforma sanitaria voluta da Obama. Colpisce quel voto, perché è soprattutto uno schiaffo al presidente. Ma si dimentica la posizione a favore dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, che è – finora – la decisione più carica di conseguenze presa dall’attuale amministrazione.

Ma la stessa contrapposizione tra lui e Trump è largamente esagerata. Si può anzi affermare che l’avvento di Trump sia stato in una certa misura preparato dallo stesso McCain. Quando si esalta il suo essere stato un capo di bestiame non marchiato, un «maverick», si sottolinea il suo essere fuori della mandria repubblicana. Come Trump. La sua candidatura, nel 2008, segna la prima disfatta del vecchio Grand Old Party e l’inizio di una nuova storia. Non è più l’establishment del GOP a dominare il processo di selezione del candidato alle presidenziali, sono i movimenti legati al tea party, alla destra religiosa e ai ricchi donatori che li foraggiano. Come personaggio bizzarro, McCain va a genio a quel mondo, politicamente meno, tant’è che sceglie Sarah Palin come running mate.

E non è solo la scelta di una vice. Diventa sempre più la scelta di un indirizzo, nella speranza di conquistare l’elettorato, ormai decisivo, del ceto medio bianco rancoroso. McCain arranca dietro l’esuberante governatrice mentre l’America di Bush scivola nel gorgo della recessione, e non può consentirsi il lusso di finire belle mani di un ticket pittoresco composto da un maverick e da una cacciatrice di lupi e caribù.

“Country First” era il motto della campagna McCain-Palin, anche in questo battistrada di “America First”. La parentesi di Obama mette in ombra quanta continuità ci sia tra l’insuccesso di McCain e il successo di Trump. Personaggi agli antipodi, forse, eppure entrambi frutto e artefici della svolta impressa al Partito repubblicano dalla destra più retriva. Oggi che non c’è più, la sua immagine depurata degli aspetti politici imbarazzanti – l’anti Trump – è destinata ad avere un’influenza sul dibattito politico americano molto maggiore di quanta ne avesse da vivo. Ma, appunto, è un’immagine idealizzata