Il partito comunista cinese mai si sarebbe immaginato che in Asia, dopo la presidenza Obama, gli Usa avrebbero commesso un errore dietro l’altro, spianando la strada a una «riconquista» asiatica da parte della Cina. E se questa può apparire una sensazione condivisa da analisti (e governi locali) il recente studio del Lowry Institute australiano sul «Power Asia Index» conferma questa lettura. Attraverso 114 parametri, suddivisi in 8 macrocategorie, dagli aspetti più specificamente economici, a quelli militari, per arrivare all’influenza culturale, secondo il Lowry Institute l’attuale posizione degli Stati uniti – ancora predominante ma di poco – è destinata a saltare.

I dati raccolti dal Lowry Institute, infatti, sono inseriti in una balestra temporale rivolta al futuro (2030) e confermano il dato: l’Asia sarà dominata dalla Cina (che soffrirà invece le diffidenze culturali degli stati vicini, anche a causa della storia non sempre benevola tra i paesi asiatici) soppiantando proprio gli Usa.

Come ha spiegato Herve Lemahieu, direttore dell’«Asia Power Index Project» del Lowy Institute, per gli Stati uniti, il tallone d’Achille «è proprio la questione legata alle relazioni economiche». La presidenza Trump, secondo Lemahieu, «sta minando gli stessi aspetti del potere degli Stati uniti che gli conferiscono il vantaggio competitivo sulla Cina: Trump è scettico nei confronti del sistema di alleanze, è contrario al libero scambio». Inoltre, ogni forma di guerra commerciale tra la Cina e gli Stati uniti, «finirà per influenzare tutti gli altri paesi asiatici». Trump era il classico personaggio che Pechino guardava con sospetto: Xi Jinping sapeva bene che la strategia «pivot to Asia» di Obama era rischiosa; nonostante questo, gli alti funzionari cinesi avrebbero preferito una vittoria di Hillary Clinton, rispetto a uno strambo animale politico come Trump.

Invece, il primo atto di questa nuova amministrazione americana è stato un regalo inatteso: gli Usa hanno infatti abbandonato e affossato la Trans-Pacific Partnership (Tpp), ovvero quel trattato di libero commercio tra stati asiatici e Usa che escludeva proprio Pechino.

L’abbandono di quel trattato ha creato un effetto domino spietato per Washington; il Pcc non si aspettava questo regalo, ma i cinesi sono sempre pronti alle pieghe degli eventi; inoltre l’intera area è rimasta senza parole, tanto che perfino il Giappone, l’alleato più stabile nell’area per Washington, ha evidenziato segnali di evidente fastidio. L’affidabilità degli Usa è parsa scendere ai minimi storici e non è un caso se nei giorni scorsi, dopo due anni e mezzo, Giappone, Corea del Sud e Cina sono toranti a incontrarsi per parlare di Corea del Nord, certamente, ma anche di futura cooperazione.

Se alla confusione trumpiana aggiungiamo l’elezione di Moon Jae-in in Corea del Sud, il quadro per gli Usa è ancora più fosco. Per quanto infatti Washington ora proverà in ogni modo a intestarsi un’eventuale pacificazione della penisola coreana, Trump sa bene che grande merito dell’eventuale esito è stato di Moon Jae-in: un segnale non proprio positivo, considerando che la situazione si è sbloccata proprio perché Moon ha scardinato l’alleanza tra una Seul nelle mani dei conservatori e gli Usa. Analogamente un grande lavoro è stato fatto della Cina, una volta intuite le possibilità: che Trump si intesti pure «il successo coreano» pensano a Pechino; tanto – a quel punto – la domanda successiva sarà una solo e soltanto: che senso avranno in quel contesto pacificato le basi americane in Corea del Sud? Nessuno e lo sanno tanto i cinesi, quanto coreani e americani.