Bashar Eid è un agricoltore tra i più noti di Burin. Nel villaggio quando chiedi di lui ti rispondono: «Bashar? Quello alto?». Il suo metro e novanta non passa inosservato, così come la bassa statura della moglie quando sono insieme. Strutture fisiche e taglie diverse, eppure ben assemblate quando sono entrambi al lavoro, come in questi giorni di raccolta delle olive, un appuntamento annuale in Cisgiordania, e non solo, che coinvolge decine di migliaia di persone, famiglie intere, scolaresche, chi vive in città e chi nei villaggi, giovani e anziani, tutti pronti a rinnovare una tradizione che è parte dell’identità nazionale palestinese. Nisreen, la moglie di Bashar, è una macchina a guerra. Sale le scale velocemente, si arrampica come un felino sui rami più forti e, aiutandosi con un rastrello, riesce a far cadere sul telo posto sotto l’albero la stessa quantità di olive raccolte insieme dalle due figlie, che pure si danno da fare. «Questi alberi sono la nostra vita, mio padre alcuni li ha piantati prima che nascessi» ci racconta Bashar. «Produciamo olio d’oliva da generazioni – prosegue – e spero che i miei figli portino avanti questa attività. È bello lavorare nei campi, nei frutteti, nella natura». Come dargli torto, specie in questi giorni di ottobre, con temperature primaverili che rendono più sopportabile la fatica.

[object Object]

 

Una esistenza tranquilla fino a un certo punto quella della famiglia Eid perché su di essa incombe perenne una minaccia. In cima alla collina sopra i 40 dunum (4 ettari) di uliveti di Bashar e sua moglie, c’è un avamposto coloniale, Givat Ronen. A viverci sono degli israeliani poco più che adolescenti simpatizzanti del gruppo «I giovani delle colline» che da anni si lancia alla conquista delle alture della Cisgiordania palestinese allo scopo di dare vita a nuove colonie. Pochi caravan all’inizio ma una volta che hanno preso «possesso» della terra i coloni non la lasciano più, privata o pubblica che sia. Sanno che presto o tardi i governi israeliani di qualsiasi colore procederanno al riconoscimento (secondo la legge israeliana non quella internazionale che condanna la colonizzazione) del loro insediamento. E per i contadini palestinesi che hanno i campi coltivati e frutteti a ridosso di avamposti e colonie, la vita spesso si trasforma in un inferno. «In questi giorni di raccolta delle olive, i coloni dal loro avamposto sono scesi diverse volte verso le nostre terre» ci riferisce Bashar «lanciano pietre, ci minacciano con bastoni, ci costringono ad andare via. E i soldati non fanno nulla di serio per fermarli». Il contadino palestinese ci mostra un ginocchio, ancora gonfio. «Qualche giorno fa hanno colpito con una grossa pietra».

Il racconto di Bashar Eid è simile a quello di tanti altri agricoltori di Burin, uno dei villaggi palestinesi nella zona di Nablus particolarmente presi di mira dall’aggressività dei coloni israeliani. In quest’area si concentrano alcuni degli insediamenti «ideologici», roccaforti dell’ultranazionalismo religioso e della militanza più agguerrita. Yizhar, Itamar, Elon Moreh, Eli, solo per citarne alcuni. L’altra zona dove si registrano più violenze innescate dai coloni è quella di Hebron. L’esercito israeliano che dovrebbe fermarli, invece, denunciano i palestinesi, fa poco o nulla e non poche volte prende le parti dei coloni. Una decina di giorni fa una dozzina di giovani coloni con il volto coperto, di Yizhar con ogni probabilità, sono scesi lungo l’altro versante della valle di Burin, di fronte agli oliveti di Bashar Eid. «Hanno dato fuoco alle terre di vari abitanti del villaggio e i soldati non hanno mosso un dito», denuncia Amir, un giovane. Parole che trovano conferma in un video messo in rete da ong per i diritti umani.

[object Object]

Oggi a Burin i coloni non si sono visti. La ragione è semplice. A dare una mano a Bashar e alla sua famiglia sono giunti una quarantina di volontari israeliani organizzati da «Rabbini per i diritti umani» (Rhr), una ong che include laici e religiosi progressisti, che ponendosi come «scudo umano» provando a garantire un minimo di protezione ai contadini palestinesi durante la raccolta delle olive. Altre decine di volontari di Rhr sono andate a Kufr Khalil e Yasuf. Fino a due anni fa dalla parte dei contadini palestinesi c’erano inoltre numerosi attivisti stranieri, tra cui anche italiani, a cercare, con la loro presenza, di dissuadere i coloni dal lanciarsi in scorribande contro chi raccoglie le olive a distanza ravvicinata dagli avamposti. La pandemia e le conseguenti restrizioni israeliane all’ingresso di cittadini stranieri hanno fermato questo afflusso. «Sono 18 anni che facciamo il possibile per proteggere gli agricoltori palestinesi» ci dice Nava Hefetz, rabbina di rito ebraico riformato «ci coordiniamo con le famiglie palestinesi e avvertiamo della nostra presenza i militari. Così facendo tante volte impediamo le aggressioni». Ma non sempre basta e non sono infrequenti gli attacchi agli stessi volontari israeliani. Nava Hefetz riconosce che è esiguo il numero di attivisti ebrei pronti a partecipare a queste iniziative in difesa dei diritti dei palestinesi sotto occupazione. «La società israeliana da tempo ha virato verso destra, tra i più prevale il disinteresse per ciò che subiscono i palestinesi e ciò che fanno i coloni in Cisgiordania», ci dice.

[object Object]

Secondo un calcolo, aggiornato a qualche giorno fa, dell’attivista palestinese Ghassan Daghlas dall’inizio della raccolta delle olive icoloni israeliani sono stati protagonisti di 58 attacchi, di cui nove solo a Burin. Attacchi che descrive come «pianificati e non spontanei». A Sebastia, a nord di Nablus, i coloni hanno sradicato 900 alberi di ulivi e albicocche. Altri 70 ulivi sono stati tagliati nei pressi di Masafer Yatta, a sud di Hebron. Stesso destino per centinaia di ulivi ad Awarta, Tuwani e Al Mughayyer. A Yasuf la famiglia Hammoudeh è stata aggredita per due volte nel giro di pochi giorni. Da agosto, sempre secondo i dati di Daghlas, i coloni e i soldati israeliani hanno ferito almeno 22 palestinesi – tra cui il noto attivista Mohammed Khatib, poi arrestato – e distrutto più di 1800 alberi. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha), i coloni hanno effettuato 20 attacchi tra il 21 settembre e il 4 ottobre e i numeri hanno già superato quelli dello scorso anno: 358 raid, di cui 274 a proprietà, e 84 feriti. La scorribanda più grande è avvenuta il 28 settembre quando decine di coloni mascherati sono scesi nel villaggio di al-Mufagara, a sud di Hebron, e hanno attaccato gli abitanti con pietre ferendone 29 tra cui un bambino di tre anni.

I centri per i diritti umani spiegano che lo scopo di tanta aggressività, in netto aumento rispetto agli anni passati, è quello di impedire ai contadini palestinesi, con il pretesto dei motivi di sicurezza, di raggiungere le loro terre che sono destinate, nei disegni dei coloni, all’espansione futura degli avamposti. Anche il danno economico è significativo. 80mila famiglie palestinesi si affidano alle olive e all’olio come fonti di reddito. Mai come quest’anno sono vere le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish: «Se gli ulivi conoscessero le mani che li hanno piantati, il loro olio diventerebbe lacrime».